Betel. Dio si rivela a Giacobbe
di Giovanni Deiana
Esaù aveva una fame nera: lui cacciatore di professione, in tutto il giorno non era riuscito a catturare neanche un uccellino con cui cercare di placare gli implacabili stimoli dello stomaco vuoto. Alla fine, di umore nero, si diresse verso l’accampamento con la speranza che i suoi genitori, Isacco e Rebecca, gli offrissero almeno un po’ di pane. All’avvicinarsi percepì un profumo di minestra che avvolgeva tutto l’accampamento: ma non proveniva dalla tenda dei suoi genitori bensì da quella del fratello Giacobbe.
Per un piatto di lenticchie
Con lui le cose non andavano bene; fin da ragazzi non facevano che litigare e con gli anni i rapporti erano diventati sempre più tesi per i loro caratteri diversissimi; Esaù, istintivo e ribelle, non sopportava la vita scandita dalle solite occupazioni: alzarsi presto, accudire il bestiame, arare, seminare, mietere! Che noia! Meglio vivere di caccia che offriva una vita piena di avventure. Giacobbe invece era l’opposto; gli piaceva programmare tutto: la terra era un dono di Dio e coltivarla era il modo migliore per ringraziarlo! Non ci fosse quel fratello fannullone, la vita sarebbe stata meravigliosa. Proprio in quel momento entrò Esaù: “Dammi da mangiare – gli disse- perché non sono riuscito a prendere niente!”. Era la solita storia che si ripeteva ormai da anni. Quando Giacobbe aveva bisogno di aiuto, suo fratello non solo non gli dava una mano, ma lo sbeffeggiava raccontandogli le sue avventure di caccia.
Questa volta Giacobbe decise di essere duro: “Va bene – gli disse- però mi devi vendere la tua primogenitura”.
La primogenitura
Qui è indispensabile aprire una parentesi. Per noi, essere il primogenito non significa proprio niente, ma nell’antichità era un’altra cosa: al primogenito era affidato il prestigio della famiglia e, per facilitargli il compito, a lui veniva affidato l’intero patrimonio; agli altri fratelli restavano le briciole: quasi sempre le figlie diventavano badesse di qualche monastero, mentre i maschi, meno inclini alla vita religiosa, venivano avviati alla carriera militare nella quale era possibile accumulare onori e ricchezze. Al tempo dei patriarchi il primogenito riceveva una benedizione che gli assicurava non solo il benessere ma anche il comando supremo sulla famiglia: “Sii il signore dei tuoi fratelli e si prostrino davanti a te i figli di tua madre. Chi ti maledice sia maledetto e chi ti benedice sia benedetto!” (Gen 27,29) Insomma era lui che subentrava al patriarca nella gestione degli affari familiari.
Esaù vende la primogenitura
Esaù si rese conto che morire di fame da primogenito non addolciva le cose e senza pensarci due volte accettò: ma Giacobbe pretese un impegno che nell’antichità era più vincolante di un contratto: “Giuramelo”, disse. Ed Esaù giurò e così cedette la primogenitura per il proverbiale piatto di lenticchie. Ovviamente perché l’accordo avesse effetto doveva essere ratificato dal genitore. A questo pensò la madre, Rebecca. Siccome Isacco, il padre dei due ragazzi, era piuttosto avanti negli anni e di conseguenza era quasi cieco, riuscì a fare benedire Giacobbe al posto del primogenito Esaù! Il patriarca quando si accorse dell’errore fu colto da un profondo sgomento, ma di fronte al povero Esaù, che sbraitava per l’ingiustizia subita, rimase irremovibile: “L’ho benedetto- disse- e benedetto resterà” (Gen 27,33), e a scanso di equivoci aggiunse: “ Figlio mio gli disse… Ecco, io l’ho costituito tuo signore e gli ho dato come servi tutti i suoi fratelli; l’ho provveduto di frumento e di mosto; ora, per te, che cosa mai potrei fare, figlio mio?” (Gen 27,37). Esaù capì che per rientrare in possesso del suo ruolo c’era una sola strada: uccidere l’usurpatore! Giacobbe fu costretto a cambiare aria: il fratello di Rebecca, Labano viveva a Harran e gli avrebbe offerto ospitalità sicura . Così, per evitare la vendetta di Esaù, Giacobbe si mise in strada verso il nord della Siria; un viaggio di oltre mille chilometri che ovviamente richiedeva diversi mesi.
Il sogno di Giacobbe
Una notte però gli capitò qualcosa che doveva cambiare la sua vita. Dopo aver camminato per diversi giorni alla fine arrivò ad un mandorleto e lì, visto che ormai era quasi sera, si preparò a trascorrevi la notte. Prese un sasso e lo sistemò come guanciale e subito piombò in un sonno profondo. E sognò: vide una scala …e gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa (Gen 28,12) e Dio stesso che gli parlava. “A te e alla tua discendenza darò la terra sulla quale sei coricato. 14 La tua discendenza sarà innumerevole come la polvere della terra; …E si diranno benedette, in te e nella tua discendenza, tutte le famiglie della terra” (vv.13-14). Giacobbe si svegliò e si rese conto di trovarsi in un luogo sacro dove abitava Dio: “La mattina Giacobbe si alzò, prese la pietra che si era posta come guanciale, la eresse come una stele e versò olio sulla sua sommità. E chiamò quel luogo Betel, mentre prima di allora la città si chiamava Luz” (28,18-19).
Bet El
Ma chi era il Dio che gli aveva parlato; saremmo tentati di pensare fosse lo stesso che più tardi apparve a Mosè sul Sinai (Es 3,14) e che conosciamo come Jahveh; ma non è così. Il termine Bet El significa casa di El: lo stesso Dio El che abbiamo incontrato a proposito di Melchisedek. Ma chi era questo ‘El? La scoperta dei testi di Ugarit ha permesso di stabilire definitivamente che egli era la divinità più importante dell’antichità, venerata non solo nella Palestina ma in tutto l’oriente. Gli appellativi che gli venivano attribuiti sono illuminanti: era padre degli dèi e degli uomini, creatore del mondo, era benevolo e cordiale, fonte di benedizione e di fertilità e governava il cosmo con saggezza. Egli era venerato anche in Mesopotamia dove lo chiamavano Ilu. Siccome questa popolazione conosceva la scrittura, è significativo che l’ideogramma usato per scrivere Ilu sia quello della stella. C’è quindi da supporre che le popolazioni mesopotamiche identificassero la divinità con ciò che per loro era l’essere più eccelso: come il cielo, appunto . Ma come la mettiamo allora con Jahveh, il Dio unico dell’AT. Egli stesso l’ha spiegato a Mosè: “Dio parlò a Mosè e gli disse: «Io sono Jahveh! Mi sono manifestato ad Abramo, a Isacco, a Giacobbe come El Onnipotente, ma non ho fatto conoscere loro il mio nome di Jahveh”». (Es 6,2-3). Ma questo sarà l’argomento del prossimo articolo.
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