In breve:

Beppe Severgnini e il vescovo Antonello. Due giornalisti con lo stile dell’ironia

Severgnini

a cura di Augusta Cabras.

Giornalista, editorialista e vicedirettore del Corriere della Sera, dov’è arrivato nel 1995. Per il quotidiano di via Solferino ha creato il blog Italians (nel 1998), tiene l’omonima rubrica (dal 2001) e ha diretto il settimanale 7. Dal 2013 è opinion writer per The New York Times. È stato corrispondente in Italia per The Economist. Ha lavorato per il Giornale di Indro Montanelli e per La Voce. Nel 2004, a Bruxelles, è stato votato European Journalist of the Year. È autore di 18 libri e ama in maniera viscerale la Sardegna. Alla Pastorale del Turismo lo ha intervistato il vescovo Antonello

Lei ha iniziato il suo lavoro a 27 anni nella redazione de Il Giornale diretto da Indro Montanelli. Cosa direbbe Montanelli se potesse scrivere, sulla realtà di oggi?
Direbbe che noi italiani siamo più seri di quello che vogliamo ammettere, come se essere seri ci rovinasse la reputazione.

Da 25 anni è al Corriere della Sera di cui è editorialista e vicedirettore. Ha diretto il settimanale Sette e la cosa di cui va particolarmente fiero è la costituzione di una redazione di giovani.
Io ho detto che per fare un giornale nuovo occorrevano forze fresche ed energie diverse. Non puoi prendere sessantenni per proporre una cosa nuova. A una certa età porti una maggiore capacità di sintesi, sicuramente più calma, ma non c’è dubbio che un ragazzo o una ragazza ventenne, un trentenne porta un modo di vedere le cose in modo nuovo che non vuol dire usare bene i social. In una redazione, in un ufficio, in un reparto, un ventenne, un trentenne e un sessantenne sono degli alleati naturali, perché ognuno mette qualcosa di diverso. Se in un posto di lavoro sono tutti uguali si parte già con il piede sbagliato. Io ho detto: ho l’esperienza, vorrei avere con me i più bravi studenti e studentesse della scuola di giornalismo. Ora sono state assunte, lavorano in quattro redazioni diverse e sono bravissime. Credo di non meritare particolari lodi per questo. Credo sia stupefacente il contrario. Se arrivato alla seconda parte della vita uno non capisce che è arrivato il momento di iniziare a restituire non è un egoista, è tecnicamente un cretino.

La famiglia per un giornalista che cosa è? Considerato che lei e sua moglie festeggiate 34 anni di matrimonio…
La serenità in una famiglia è fondamentale per ogni persona, qualunque professione vanga svolta. Il nostro è un mestiere in cui le soddisfazioni, le delusioni, le competizioni, l’equilibrio tra la vanità buona, cioè quella che ti consente di andare avanti nonostante tutto, e la vanità cattiva, che pone te e il tuo successo prima di tutto il resto, sono presenti costantemente. La moglie e un figlio sono quelli che ti dicono la verità; non lo fanno per adularti, compiacerti o consolarti. Sono loro a darmi i buoni consigli.

La sensazione che io ho quando leggo Severgnini è una sensazione di profondità e di leggerezza, di ironia anche e di autoironia. E non è facile trovare commentatori così. Le chiedo se questa sia una scelta ben precisa e se manca oggi questa capacità di ironia e autoironia che ci aiuta ad affrontare la realtà.
Manca ai giornalista e ai commentatori, non alle persone. Quasi mai è stata equivocata la mia ironia o sono stato frainteso, anche quando scrivo di altri paesi, di altri popoli. C’è gente che appena tocca questi argomenti si mette nei pasticci. Chi legge e chi ascolta di solito ha gli strumenti e possiede una specie di misterioso radar e capisce il cuore che c’è dietro le cose che dici. Io ho scherzato, ho criticato gli inglesi, gli americani: non ho mai avuto problemi, ma sono popoli che conosco molto bene. Accetti le critichi se intuisci che dietro c’è amore, c’è affetto. Se tu non vuoi bene alla gente, i lettori se ne accorgono. A me questo viene spontaneo, a me piace la gente, mi piace confrontarmi, discutere ecc. È importante voler bene alle persone e ai temi che tratti. L’ironia poi… è la capacità di vedere le imperfezioni del mondo e sorridere. Significa evitare di trasformare in tragedia ciò che tragedia non è. È un modo per alleggerire, che non significa essere superficiali. L’ironia è un modo di spiegarsi meglio perché l’interlocutore abbassa le difese, che sono la cautela, lo scetticismo, la diffidenza.

Lei ha scritto che questa pandemia è una macchina della verità.
Certo. La pandemia, come ogni grande crisi, rivela la natura vera delle nazioni, delle regioni, delle amministrazioni, delle persone, delle relazioni. E noi italiani siamo stati bravi. Davanti al pericolo abbiamo avuto paura: non si è trattato di codardia, ma di intelligenza.

Ho letto il suo articolo sull’apertura delle discoteche. Le ha definite macchine gioiose di contagio…
Nelle discoteche per parlarsi bisogna urlarsi in faccia sennò non si sente. Urlarsi in faccia, in questi tempi, non è una buona idea. Ballare a distanza di due metri è impossibile, non pigliamoci in giro! Se i modi di contagio sono questi, non è stata una bella idea riaprirle…

Parto dal titolo del suo libro, La vita è un viaggio. Un giornalista che viaggia così tanto cosa scriverebbe dei suoi viaggi interiori?
Chi scrive, scrive sempre per qualcuno che deve leggere. Se scrive solo per se stesso ha fallito. Io scrivo per me, ma scrivo anche per gli altri. Però sono cauto nel raccontare, ad esempio, della mia fede. Io e la mia famiglia siamo cattolici, credenti e praticanti, ma perché non lo sbandiero? Perché credo di essere più utile come laico. Purtroppo troppi in Italia, nel mondo della comunicazione, sono partiti utilizzando la fede come una bandiera e sono finiti per usarla come una mazza. E questo non va bene.

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