Bello è morire per la Patria
di Claudia Carta.
Bitti. Gli scatti di Salvatore Ligios li devi andare a cercare. Non li troverai all’ombra del municipio e delle grandi bandiere. Né fra le strade dove la gente va e viene, parla, strilla, si agita. Non tra il gorgoglio bianco e viola della fonte con i suoi zampilli, o in mezzo ai fumi dei motori accesie rombanti. No.
Il bianco e nero di Ligios lo trovi lontano dal centro, ma nel cuore antico di Bitti. Piazza Cadone. Anima di questa gente, di questo borgo. Lo trovi solo se stai attento. Se camminare non ti spaventa. Se te ne concedi il tempo, o meglio, se nel tempo ci entri con tutto te stesso. E leggi.
Una dopo l’altra, su case fantasma dalle finestre a volte chiuse, a volte spalancate, dove fanno capolino brandelli di tende consunte che le raffiche di vento agitano inesorabili, o lungo i muri in pietra intervallati dalle panche in granito ad accogliere spiriti, più che corpi, affaticati, o di sotto ai tetti diroccati dove, come d’incanto, colora a mazzi la Bouganvillea, il fotografo di Villanova Monteleone ha posato le sue immagini a raccontare di paesaggi e identità, in una storia che si fa ogni volta diversa negli occhi di chi quelle immagini osserva e interroga. Non c’è un ordine, e se c’è non è invadente. Non un prima e un dopo. Nelle figure abbracciate da cornici azzurre tutto parla, fra interminati spazi e sovrumani silenzi: l’altopiano graffiato dal lungo filo spinato che incontra in alto l’orizzonte e chissà se termina lassù o se rinchiude per sempre fuori la libertà; i cespugli sparsi sulla collina; i fiori di campo, bianchi, come innumerevoli punti di luce sul nero; i fitti boschi dai tronchi svettanti al cielo come braccia tese, o i rami di alberi secolari piegati dal vento, quasi ad accarezzare la terra. Poi l’inverno e il bianco. La neve e i suoi muri come gelide trincee; gli anfratti fra le rocce; le cavità che lasciano intravedere il mondo di fuori: i suoi uomini, le sue divise, le sue armi, i suoi morti? Chissà…
Nella grande storia di Salvatore Ligios sotto il cielo di Bitti si parte dalla grande Guerra, ma non c’è sangue, né croci, né corpi. C’è l’immenso e il dettaglio. E ci sono le parole. A parlare di battaglie, di paesaggio, di identità, di fotografia. Non riempiono le immagini. Non le sovrastano. Le accompagnano, mettendo nelle mani e negli occhi chiavi di lettura ancora diverse che aprono altre storie, che svelano nuove domande, che suscitano contrastanti riflessioni: la voce armoniosa e chiara del canto del pastore; le mani del contadino e la terra che lui lavorava, fatte della stessa materia, con gli stessi segni: la grande Madre; l’inchiostro nero sui quaderni che dicono dei campi di prigionia in Ungheria e Alsazia-Lorena fra l’ottobre del 1917 e il novembre 1918, quando “compiuto i 27 anni di età, lungi dalla patria natia e prigioniero, ridotto a minimi termini, mi toccò rimanere in gabbia come un uccello e par di vivere ore di angoscia”, e poi i morti in terra straniera e chi si salva dai lager per due chili.
Infine, quell’anno sull’Altipiano che scuote ogni pensiero e unisce in un unico colpo d’occhio le infinite storie che vengono fuori dagli scatti di Ligios: “La guerra non è così dura come noi l’immaginiamo. Questa mattina quando ho visto entrare nella città i vostri soldati in festa, accompagnati dal suono della fanfara più gioconda che si possa concepire, ho capito, e tutta la popolazione l’ha capito con me che la guerra ha le sue belle attrattive… Belle e sublimi attrattive. Infelice colui che non le sente! Perché o signori, sì, bello è morire per la patria…”.
Profondissima quiete in Piazza Cadone, mentre l’anima inquieta grida: «Perché?».
(Ai Matteo Demenego e Pierluigi Rotta di tutta la storia italiana)
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