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Anche tu parli social network?

Social

di Alessandra Secci.
Roma, 2 aprile 2009. Adn Kronos (nota agenzia di stampa), con un breve comunicato, riporta il numero di quelli che secondo il volume Neologismi. Parole nuove dai giornali, curato dai linguisti Valeria Della Valle e Giovanni Adamo, ed edito dallaTreccani, sono stati, dal 2000 al 2008, i vocaboli entrati a far parte del dizionario italiano: 4136.
La fetta più grande della torta è contesa tra i termini desunti dalla politica e dai suoi protagonisti (da berlusconismo a Veltrolandia, solo per citare alcuni dei più noti avversari del periodo), e dall’embrionale era digitale, che muoveva i suoi primi passi tra gli sms e il loro epocale e stenografico linguaggio – contemporanea riproposizione delle note abbreviative che Tirone, liberto e scriba di Cicerone, ideò oltre duemila anni fa – nonché i neonatali vagiti delle prime piattaforme di condivisione e messaggistica, da Messenger a My Space, da LinkedIn alle varie chat istantanee (Tiscali, Hotmail, etc.).
Nel 2018, ancora Della Valle e Adamo, nella nuova edizione di Neologismi, annoverano altre 3500 definizioni, ma qui la maggioranza bulgara si registra per il lessico traslato dai social: ci facebucchiamo, ti whatsappo la foto, taggami su Instagram, sono solo alcune delle formule divenute ormai consuete.
L’avvento della tecnologia e il suo utilizzo da parte di differenti utenze, i cosiddetti nativi digitali, cioè i giovani che con essa sono nati e cresciuti, e i migranti digitali, non avvezzi come i primi ma comunque suoi avidi consumatori, nonché la fortissima connotazione anglofona che la tecnologia stessa opera verso l’italiano – più soggetto a manipolazioni rispetto a francese e spagnolo (in cui il Pc è ancora ordenador, il mouse el ratón e i social network redes sociales) – rappresentano i due vettori principali sui quali si muove l’evoluzione del linguaggio, evoluzione che deve però tenere conto anche di un terzo, fondamentale fattore: la velocità.
Come osservato da Paolo D’Achille, linguista e accademico della Crusca, i nativi digitali sono stati i primi a interfacciarsi con una lingua italiana più “leggera”, scevra dai pesanti costrutti canonici che dal Decamerone in poi sono stati severamente seguiti; inoltre, le stesse nuove generazioni hanno operato proprio sull’italiano (e non più sui dialetti d’origine) quel processo di smaterializzazione della scrittura che ha portato lo scritto a viaggiare sullo stesso piano del parlato: perfettamente consequenziale appare dunque il successo di piattaforme come ad esempio Twitter, dove lo spazio espressivo è ridotto, più che nei vecchi sms, a soli 140 caratteri; un’istantaneità che può però avere, secondo gli esperti, serie conseguenze sull’elaborazione dell’idea: formattare il linguaggio equivale a formattare il pensiero.
L’antidoto? La civilizzazione digitale, ossia l’alfabetizzazione dei migranti digitali, l’abbattimento del digital divide, con costi di connessione sempre inferiori e soprattutto un corretto orientamento in quel mare magnum che è l’informazione sulla Rete.

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