Accogliere, voce del verbo amare
di Augusta Cabras.
Si costruisce così l’accoglienza, su quel verbo bistrattato ma sacro, spesso travisato ma vitale, necessario, indispensabile, per noi e per dare un senso alla relazione con gli altri. E se ora questa parola si è fatta più forte e a causa della guerra in Ucraina bussa alle nostre porte, in realtà non dovremmo mai metterla in soffitta. Ciascuno di noi, ogni giorno fa esercizio di accoglienza: con i propri cari, con i colleghi di lavoro, con le persone che incontra. Accogliamo e veniamo accolti, con le nostre fragilità e la nostra umanità.
Ma ci sono momenti storici che ci investono di un compito più grande: accogliere chi arriva da lontano, chi non parla la nostra lingua, chi non condivide con noi passioni, interessi, affetti, chi sta attraversando un’esperienza di dolore e negli occhi ha impressi i segni del lutto. Perché la guerra questo fa! Imprime, se non uccide, segni indelebili di sofferenza, tracce incancellabili di angoscia, memorie di pianti, grida, orrore. Appena è iniziato l’esodo degli ucraini, in tutta Europa si sono messe in atto azioni utili per accogliere i profughi. La vicinanza geografica ha avuto un ruolo importante, anche nel toccare la sensibilità delle persone e la responsabilità mostrata dagli Stati è da considerarsi lodevole.
E questo impegno, profuso con tempestività e solerzia, è diventato la prova lampante che l’accoglienza, di fronte alla disperazione di chi scappa dalla guerra e/o dalla povertà, è la strada giusta e praticabile per salvare milioni di vite umane. Sempre. Ad ogni latitudine. Senza distinzione. Invece ancora oggi assistiamo (impotenti?) a situazioni in cui uomini, donne e bambini, nella nostra civile Europa, sotto un orribile filo spinato di recente memoria, non ricevono neanche un pezzo di pane e un bicchiere d’acqua e battono i denti a causa del freddo, con i piedi immersi nella neve. Non possiamo tollerarlo! La nostra coscienza intorpidita dovrebbe avere un sussulto e ribellarsi. Se non lo si fa il rischio è che la forza, la grandezza, l’intensità dell’accoglienza e di ciò che la muove, sia inversamente proporzionale alla diversità, alla distanza geografica e culturale tra chi dovrebbe essere accolto e chi dovrebbe accogliere. Non possiamo permetterlo!
Le storie di queste pagine sono il segno che l’Ogliastra è terra d’accoglienza e queste esperienze possono essere stimolo per accogliere, seppure con qualche limite e difficoltà, fratelli e sorelle, vicine e lontane anche per geografia e cultura, condividendo il privilegio di vivere in una terra in pace.
«Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).
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