A tu per tu con Maria Agostina Cabiddu. I diritti vanno conquistati e difesi
di Rosanna Agnese Mesina.
Dottoressa Cabiddu potrebbe spiegarci cosa significa essere costituzionalista e qual è stato il suo percorso per diventarlo?
Ho iniziato a occuparmi di diritto costituzionale dopo la laurea. Inizialmente volevo fare il magistrato, poi ho accantonato l’idea, anche perché l’ho visto come un lavoro ripetitivo, di tipo impiegatizio e quindi ho iniziato a scrivere e a studiare. Ho fatto il dottorato di ricerca, il presidente di commissione era Gustavo Zagrebelsky, che poi sarebbe diventato giudice della Corte Costituzionale.
Diritto costituzionale è stato un amore successivo. Dopo tutto il cursus honorum, non risparmiandomi in niente, sono diventata idonea per l’associazione dei costituzionalisti e in seguito ordinario al Politecnico di Milano dove sono riuscita a far inserire nel programma di studi un esame di Istituzioni di Diritto pubblico che comprende anche Diritto costituzionale, perché ritengo che senza la sua conoscenza sia difficile lo studio del Diritto amministrativo.
Insomma, un percorso casuale, volendo, ma evidentemente toccava le mie corde.
Nel suo percorso formativo e lavorativo il fatto di essere una donna o di provenire dalla Sardegna le ha procurato difficoltà o qualche discriminazione?
Nessuna difficoltà, anzi, devo dire che il mio professore è stato una persona che non mi ha mai posto dei limiti, non ha mai domandato cosa facesse mio padre o da dove venissero i miei genitori, né si è fatto condizionare da altri vincoli. Come donna non ho mai percepito un disvalore, forse dovuto anche al fatto che non ho avuto figli, perché il dovermi dedicare alla famiglia avrebbe forse comportato una minore attenzione verso la professione.
Forse non ho mai percepito nulla anche per via del mio carattere: sono infatti refrattaria a qualunque condizionamento, e quando qualcuno ci prova faccio finta di non capire, o smorzo con una battuta. Una volta, ad esempio, mi hanno detto: «Ma tu sei una del sud?». «No – ho risposto –, sono occidentale e vengo dalla Sardegna». Oppure: «Ma tu sei una donna». «E allora? Vuol dire che sono meglio di te!». Rispondere a tono al momento giusto e difendersi in maniera adeguata è importante. Le donne spesso rispondono con eccesso di legittima difesa; occorre difendersi a livello giusto, non bisogna replicare con una cannonata a chi ti dà uno schiaffo. Questa cosa l’ho appresa da mia madre che diceva “tene e iscappa”, ossia trattieni il buono e lascia correre quello che non vale la pena di trattenere.
Bellezza. Per un sistema nazionale. Conosciamo meglio il suo libro.
È un libro che parla del rapporto tra patrimonio culturale immateriale, come ad esempio il nostro canto a tenore, e la qualità della vita delle persone. Nasce da un’idea che mi è venuta al tempo del Covid, quando un medico responsabile della terapia intensiva aveva preso numerose opere dall’Accademia Carrara, il museo di Bergamo, e le aveva esposte in ospedale dicendo che anche quella era una terapia, perché i malati avevano bisogno di trovare sollievo alzando lo sguardo verso quelle opere. Così ho pensato a un collegamento tra qualità della vita e patrimonio culturale, cercando di trovare se nella nostra Costituzione ci fosse un fondamento per un diritto alla bellezza, diritto universale per tutti, anche là dove regna il degrado.
Bellezza non vuol dire avere un Caravaggio in casa, magari nascosto. L’arte e la bellezza sono legati allo sviluppo della persona, non a un qualcosa per fare business. A me interessa l’aspetto della qualità della vita, per questo ritengo che la prima cosa da fare per educare i ragazzi alla bellezza sia far capire la differenza tra il “mi piace” e il dire “è bello”. Per arrivare a dire “è bello” è necessario conoscere il percorso che c’è, ad esempio, dietro un’opera d’arte. Solo se conosci come l’artista ci è arrivato puoi apprezzarlo e dire che è bello. Quando le opere scandalizzano vuol dire che non se ne è capito il valore. Anche ne I cento passi si legge che Peppino Impastato, guardando con un amico verso la Conca d’oro, verso lo sviluppo edilizio incontrollato, afferma che quelle costruzioni fanno schifo, che hanno degli infissi orrendi in allumino, poi però le persone ci vanno a vivere, ci mettono i fiori, le tendine e lentamente ci si abitua al brutto. Ci si abitua al brutto però bisogna educarsi e abituarsi al bello.
Nell’idea di bene culturale non c’è quindi l’idea di appropriazione quanto di fruizione, cioè di un godimento che ti aiuta a vivere meglio. Se tu hai un bene materiale da consumare e lo consumi tu, non ce n’è per gli altri. La cultura, invece, non è un bene consumabile, anzi, più è diffusa meglio è. Purtroppo per la mancata fruizione sono andate perdute molte tradizioni.
Un suo scritto è stato scelto come traccia d’esame per la maturità: che effetto le ha fatto e cosa avrebbero dovuto esprimere i candidati che l’hanno scelta?
La traccia d’esame è stata presa da un articolo che ho scritto per la rivista dell’associazione dei costituzionalisti, e che mi era stato richiesto dal presidente Gustavo Zagrebelsky.
È stata una soddisfazione ovviamente inaspettata. Ritengo non sia stata una traccia facile, anche perché non so come nelle scuole si insegni l’educazione civica.
Penso che oggi ai giovani manchi la cultura dei diritti: non hanno la percezione che questi sono un qualcosa che esiste in natura e nessuno li può togliere. Ma i diritti vanno conquistati e difesi. Oggi non ci sono più manifestazioni di ragazzi che protestano insieme per i loro diritti; al contrario, ne conosco diversi che accettano di fare stage non pagati non una, ma tantissime volte. Forse lo fanno perché dietro ci sono le famiglie che provvedono a tutto, invece dovrebbero insegnare loro a curare i loro diritti e a difenderli. Quando, poi, questi giovani vanno all’estero perché qui non sono ben retribuiti, sbagliano perché stanno tradendo chi li ha formati. Invece si dovrebbero unire per far valere i loro diritti qui, ma loro agiscono come individui singoli, dimenticando che le persone sono fatte di socialità. Se si combatte insieme, forse le cose possono cambiare! Ai giovani manca la consapevolezza dei loro diritti e spesso non parlano di problemi seri. È vero che oggi non ci sono più tante associazioni come c’erano prima e mancano anche molti punti di riferimento: oggi gli esempi sono improvvise fortune come il calciatore o la velina. Non esiste più l’ascensore sociale che prima garantiva la scuola. Le famiglie in questo hanno grandi responsabilità.
Un consiglio alle nuove generazioni?
Ciascuno dovrebbe piano piano capire qual è il proprio percorso, coltivare il proprio sogno, anche se poi la vita ti porta altrove. Però se ti impegni, se fai dei sacrifici, raggiungi il traguardo.
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