A braccia aperte senza paura
di Fabiana Carta.
La famiglia Lai di Lanusei ha offerto ospitalità a tre profughe ucraine in fuga dalla guerra: mamma Olenka, la figlia Dara e la nonna Tamara
Esistono due modi per prendere una decisione: uno richiede il soffermarsi a ragionare e scandagliare le intenzioni e le possibilità, l’altro modo è seguire l’istinto. Va’ dove ti porta il cuore, e le scelte di cuore non hanno bisogno di troppi ragionamenti, né sono schiave della paura.
Il 24 marzo scorso, Lanusei ha accolto circa trenta profughi ucraini in fuga dalla guerra. Sono tante le famiglie che hanno offerto ospitalità. Una di queste è la famiglia Lai: papà Roberto, mamma Lucia e i figli Alessia e Mauro. «Il pensiero è venuto in mente sia e me che a mio padre, un pensiero spontaneo e veloce. Ne abbiamo parlato con mia madre, mio fratello e mia cognata: eravamo tutti d’accordo. Così ho contattato i servizi sociali per avere subito informazioni e dare la nostra disponibilità», racconta Alessia.
Il piano terra della loro abitazione, di solito utilizzato per passare dei momenti tutti insieme durante la stagione estiva o per preparare pane e dolci, sembra una sistemazione perfetta. Con qualche accorgimento e l’aggiunta di tre letti, è diventato il rifugio accogliente per mamma Olenka, 32 anni, sua figlia Dara di 4 anni, e per la nonna Tamara, di 60. Una parentesi di normalità, una boccata d’aria che però non annienta le preoccupazioni.
Dopo il grande pranzo offerto ai profughi appena arrivati in paese, organizzato dall’associazione “4 stelle” che si occupa di ristorazione collettiva, aziendale e scolastica, si sono svolti gli incontri con le famiglie ospitanti. Un momento inaspettato, di grande commozione generale. «Io e mia madre siamo andate nella sede della mensa scolastica a prendere le tre persone da accogliere; mio padre, mio fratello e mia cognata sono rimasti ad attenderle a casa – ricorda Alessia –. L’arrivo lì è stato profondamente emozionante: la vista di tutte queste persone, così spaesate e intimorite ci ha fatto realizzare concretamente quello che stava succedendo. Ci ha messo di fronte al dramma: un popolo disperato che sta espatriando. È stato molto toccante, per tutti. Non potevamo sapere cosa avremmo trovato».
Nessuno è preparato o può prepararsi ad affrontare emozioni che ti prendono per il colletto e ti trascinano dentro, le lacrime non si trattengono. Arriva il momento delle presentazioni, quello in cui gli sguardi s’incrociano e l’imbarazzo di Olenka, Dara e Tamara si fa evidente. «Mia madre ha abbracciato tutte e tre, in barba al Covid! Ma ormai aveva capito che da quell’istante sarebbero diventate parte integrante della famiglia e che avremmo condiviso la casa. Il distacco fisico non avrebbe avuto senso».
L’inglese è l’unico canale comunicativo, se non si contano i gesti e gli sguardi, certo. «La prima cosa che ho voluto domandare è chi, fra i loro cari, avessero lasciato in Ucraina, e come stessero», continua Alessia. A Leopoli è rimasto il marito di Olenka, padre della bimba, e a Lutzk – nell’Ucraina nord occidentale – il marito di Tamara e suo figlio.
Dopo il breve tragitto in auto finalmente l’incontro con il resto della famiglia Lai e il cagnolino, che li ha accolti sorprendentemente con una pallina, in segno di gioco e amicizia. «Il gesto del mio cane ha fatto sciogliere l’emozione, li ha fatti rilassare, abbiamo riso tutti insieme. Da un lato eravamo dispiaciuti per loro, preoccupati per quello che stavano vivendo, dall’altro eravamo contenti di accoglierli e di poter dare una mano. Con l’augurio che possano tornare presto nelle loro case», spiega. Per chi ha lasciato tutto, da un giorno all’altro – patria, casa, affetti, la vita quotidiana – è importante pensare che questa sia una situazione momentanea, che tutto tornerà a essere come prima. Per tenere sempre accesa la speranza. Intanto si cerca in tutti i modi di alleggerire, regalare piccoli momenti di fugace serenità, soprattutto se si ha a che fare con i bambini. L’appartamento messo a disposizione è stato addobbato con bandierine, palloncini blu e gialli e tanti giocattoli per Dara. I buoni gesti sono contagiosi. «Si sono movimentati tutti: conoscenti, familiari e amici, chiunque ci conosca. Ognuno di loro ha voluto contribuire regalando giochi o vestiti per la bimba. Tutto il paese ci sta aiutando in qualche modo, a partire dalla pizzeria di fiducia alla macelleria, che ci regala della carne in più. Una solidarietà diffusa».
La convivenza va molto bene, Olenka, Dara e Tamara sono persone molto buone, a modo, dolci, serene, profondamente dignitose. «Fosse per loro non chiederebbero mai niente e anche quando offriamo qualcosa hanno difficoltà ad accettarla. Ogni giorno ci avviciniamo per chiacchierare un po’ e tutte le domeniche li invitiamo a pranzo per stare tutti insieme. È un’occasione per fare delle passeggiate al mare, loro in Ucraina lo vedono ogni paio d’anni. Ci dicono che viviamo in un film, sono affascinate dai paesaggi», racconta Alessia. Un modo per regalare momenti di distrazione, di bellezza, per gli occhi e lo spirito. «Una settimana dopo il loro arrivo, Olenka si è avvicinata per chiedermi: “Come mai avete scelto di accogliere degli estranei?”. Anche a lei sembrava una cosa strana. Ci ho pensato, forse fa parte della cultura della nostra famiglia, degli insegnamenti, dell’educazione. Mia nonna viveva a fianco del tribunale e ospitava spesso le mamme dei detenuti, degli imputati. In qualche modo fa parte del nostro essere».
La storia della famiglia Lai è la storia di tante famiglie che hanno aperto le loro case e le loro braccia, mettendo da parte la paura. Chi accoglie non solo mette a disposizione uno spazio, soprattutto si fa carico di un bagaglio personale di tristezza, timori, sofferenza, bisogni. Ma – ricordiamo – le famiglie ospitanti non sono mai sole, c’è sempre un contatto diretto con i servizi sociali e le istituzioni. «Vorrei dire alle altre persone che non c’è da avere paura nell’essere accoglienti. È più importante accogliere e aiutare, piuttosto che avere paura. Se tutti pensassimo con più empatia potremmo fare molto di più», conclude Alessia.
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