L’orrore delle donne produttrici di bambini
di Gemma Demuro
La pratica dell’utero in affitto rischia di essere realmente sdoganata anche nel nostro Paese. Ma è contrario ai diritti della persona e al rispetto del suo corpo il fatto che si osi trattare una donna come un mezzo di produzione di bambini.
Non esiste l’infertilità assoluta! Questo è solo uno dei tanti slogan utilizzati da chi promette un figlio a coloro che un figlio non possono avere. E già, perché accanto ai viaggi di affari e alle crociere di svago, la nuova frontiera del turismo è rappresentato dalle cliniche della fertilità. A Kiev, come in molte altre città dell’Est Europa, si può trovare una donna che porta avanti una gravidanza altrui “ospitando” seme ed ovulo non suoi. Il prezzo, perché di commercio si tratta, varia tra i 20mila e i 40mila euro. Tanto vale un figlio. La pratica della maternità surrogata, comunemente nota come utero in affitto, è vietata in Italia ma non in altri paesi come Ucraina, Russia, Stati Uniti. Cosa può fare, quindi, una coppia che desidera un figlio ma non riesce ad averlo con le tecniche di aiuto alla maternità consentite nel nostro Paese? Semplice, attraversa la frontiera per recarsi laddove un figlio può essere comprato. È sufficiente essere sposati, contribuire con almeno metà del patrimonio genetico e dimostrare di non riuscire a portare avanti la gravidanza (così da evitare che questo metodo sia scelto da coloro che vogliono un figlio ma non la linea appesantita della maternità).
La madre surrogata, invece, deve avere già un suo figlio, essere giovane e sana, impegnarsi a disconoscere il figlio appena questo viene al mondo. Il tutto è sacramentato da un contratto e da un certificato di nascita dove appaiono come genitori quelli genetici o, come definiti da taluno con un linguaggio più da cantiere che da famiglia, appaltanti. Cosa succede quando questa coppia ritorna in Italia con il bimbo? La legislazione italiana vieta questa pratica. Nei pochi – rispetto al numero di bambini nati da maternità surrogata – casi arrivati all’esame di un tribunale si è assistito ad una sorta di legalizzazione tacita. Ormai diverse sentenze hanno reso lecito ciò che lecito non è. I ragionamenti giuridici possono essere condivisi o meno, ma ciò che preoccupa sono le giustificazioni di ordine etico portate a conforto di alcune decisioni.
Secondo una recente sentenza del Tribunale di Milano vi sono dei “concetti” ormai “patrimonio acquisito del nostro ordinamento” che “escludono che la genitorialità sia solo quella di derivazione biologica”. Ed ancora, “la tutela del diritto allo status e all’identità personale del figlio può comportare il riconoscimento di rapporti diversi da quelli genetici”. Coloro che, animati più dal buonismo che dal buon senso, plaudono a decisioni come queste e vedono nella gestazione d’appoggio la soluzione per rendere felice chi non lo è a causa della mancanza di un figlio sembrano quasi dimenticare che la scelta di diventare madre e padre è una scelta di altruità. Nella maternità surrogata ciò che fa da padrone è, invece, la logica industriale di domanda/offerta. Ci si trova davanti ad un imperialismo istologico dove la donna viene sfruttata per la soddisfazione del desiderio individuale ed egoistico con buona pace della sua dignità. Peraltro appaiono evidenti le ripercussioni etiche di una tecnica applicata senza remore morali e limiti giuridici, dove tutti e ciascuno dei soggetti coinvolti vede uscire sconfitta primieramente la propria dignità. Ma la ricerca spasmodica di un figlio, di un figlio voluto a tutti i costi contro le leggi umane ed etiche, non nasconde forse per i credenti la mancata accettazione del proprio limite?
Lascia un Commento