di Tonino Loddo
Per molti anni si è parlato di missione e di missionari in riferimento ai Paesi del Terzo e Quarto Mondo, con una chiara prospettiva di invio – da parte delle nostre Chiese – di risorse, di personale, di mezzi materiali e di ogni altro genere di aiuto per quelle popolazioni un tempo definite infedeli, spesso bisognose di tutto. L’immagine classica del missionario (o della missionaria) che viene nelle nostre parrocchie e racconta le sue avventure, strappando lacrime per le privazioni in cui vivono le popolazioni di cui sono al servizio e ricevendo un congruo aiuto in denaro per far fronte alle loro necessità, è ancora molto frequente.
Ma può davvero questa immagine essere quella definitiva e risolutoria del nostro interesse verso le missioni, o non sarà il caso di cominciare finalmente a fare qualche più seria ed approfondita riflessione?
Partiamo da lontano. Alcuni paesi della nostra diocesi sono privi di parroco residente, circostanza che fa infuriare fedeli e amministratori comunali. Parlavo, giorni fa, con una missionaria laica che offre il suo servizio di volontariato in Madagascar e mi raccontava della diocesi di Ambanja: 1.471.000 abitanti, diffusi in 34.083 kmq, il cui vescovo può contare sull’opera di 77 (settantasette, tenete bene a mente questa cifra!) sacerdoti. Giusto per capirci, si tratta di una diocesi grande una volta e mezza l’intera Sardegna, con all’incirca la stessa popolazione, ma con la differenza che nella nostra Isola si contano ben dieci diocesi servite da qualcosa come 1114 (millecentoquattordici, avete letto bene!) sacerdoti. Una persona che venisse da Marte sarebbe facilmente portata a ritenere che i cristiani sardi siano se non tutti santi, almeno tutti ben avviati verso la santità; e immagino che rimarrebbe stupita nel vedere le grandi e spesso ricche chiese (semi)vuote, i giovani e i maschi adulti completamente assenti da qualsiasi partecipazione alla vita ecclesiale, la stragrande maggioranza dei fedeli del tutto disinteressata a professare pubblicamente la fede e, in genere, incapace non solo di dire quanti e quali siano i sacramenti, ma perfino di rispondere a domande semplici sul Figlio di Dio e sulla sua opera di salvezza. Ma come – immagino, ancora, si chiederebbe il marziano con un’espressione stupefatta -, laggiù hanno un sacerdote ogni 21.000 abitanti e qui ne hanno uno ogni 1.500 abitanti e non solo non sono strafelici, ma vivono (nel migliore dei casi) in un torpore religioso che non onora la fede largamente ricevuta dai loro padri e dalle loro madri?!
Statistiche attuali dicono che 7 italiani su dieci (cioè, qualcosa come 42 milioni di nostri concittadini!) sono analfabeti di ritorno, cioè persone che – pur avendo compiuto un regolare percorso di studi – non sono in grado di comprendere un testo scritto di media lunghezza, né un normale telegiornale. È possibile che siano anche di più quelli che – pur avendo frequentato per anni e anni il catechismo in preparazione ai sacramenti dell’iniziazione cristiana e regolari ore di lezione di religione cattolica a scuola – sono incapaci di dar ragione della propria fede e (per usare un’espressione recente del nostro vescovo Antonello) “di reggere alla discussione e ai confronti” intorno ad essa. Ecco cosa siamo diventati: infedeli di ritorno, bisognosi di essere (ri)evangelizzati.
Ben vengano, perciò, le offerte e il sostegno ai missionari, ma questo non può esaurire l’impegno delle nostre comunità. È necessario che – guardando a quelle lontane popolazioni cristiane – noi sappiamo accogliere ed apprezzarne la freschezza della fede, la forza della spiritualità, la gioia della testimonianza e la partecipazione diretta e corresponsabile del laicato nella conduzione di tutti gli ambiti pastorali della comunità, perché questo può aiutarci a rinnovare la nostra vita di comunità e a riscoprire in profondità il dono della fede che abbiamo ricevuto e che stiamo imperdonabilmente lasciando marcire.
Infedeli di ritorno
di Tonino Loddo
Per molti anni si è parlato di missione e di missionari in riferimento ai Paesi del Terzo e Quarto Mondo, con una chiara prospettiva di invio – da parte delle nostre Chiese – di risorse, di personale, di mezzi materiali e di ogni altro genere di aiuto per quelle popolazioni un tempo definite infedeli, spesso bisognose di tutto. L’immagine classica del missionario (o della missionaria) che viene nelle nostre parrocchie e racconta le sue avventure, strappando lacrime per le privazioni in cui vivono le popolazioni di cui sono al servizio e ricevendo un congruo aiuto in denaro per far fronte alle loro necessità, è ancora molto frequente.
Ma può davvero questa immagine essere quella definitiva e risolutoria del nostro interesse verso le missioni, o non sarà il caso di cominciare finalmente a fare qualche più seria ed approfondita riflessione?
Partiamo da lontano. Alcuni paesi della nostra diocesi sono privi di parroco residente, circostanza che fa infuriare fedeli e amministratori comunali. Parlavo, giorni fa, con una missionaria laica che offre il suo servizio di volontariato in Madagascar e mi raccontava della diocesi di Ambanja: 1.471.000 abitanti, diffusi in 34.083 kmq, il cui vescovo può contare sull’opera di 77 (settantasette, tenete bene a mente questa cifra!) sacerdoti. Giusto per capirci, si tratta di una diocesi grande una volta e mezza l’intera Sardegna, con all’incirca la stessa popolazione, ma con la differenza che nella nostra Isola si contano ben dieci diocesi servite da qualcosa come 1114 (millecentoquattordici, avete letto bene!) sacerdoti. Una persona che venisse da Marte sarebbe facilmente portata a ritenere che i cristiani sardi siano se non tutti santi, almeno tutti ben avviati verso la santità; e immagino che rimarrebbe stupita nel vedere le grandi e spesso ricche chiese (semi)vuote, i giovani e i maschi adulti completamente assenti da qualsiasi partecipazione alla vita ecclesiale, la stragrande maggioranza dei fedeli del tutto disinteressata a professare pubblicamente la fede e, in genere, incapace non solo di dire quanti e quali siano i sacramenti, ma perfino di rispondere a domande semplici sul Figlio di Dio e sulla sua opera di salvezza. Ma come – immagino, ancora, si chiederebbe il marziano con un’espressione stupefatta -, laggiù hanno un sacerdote ogni 21.000 abitanti e qui ne hanno uno ogni 1.500 abitanti e non solo non sono strafelici, ma vivono (nel migliore dei casi) in un torpore religioso che non onora la fede largamente ricevuta dai loro padri e dalle loro madri?!
Statistiche attuali dicono che 7 italiani su dieci (cioè, qualcosa come 42 milioni di nostri concittadini!) sono analfabeti di ritorno, cioè persone che – pur avendo compiuto un regolare percorso di studi – non sono in grado di comprendere un testo scritto di media lunghezza, né un normale telegiornale. È possibile che siano anche di più quelli che – pur avendo frequentato per anni e anni il catechismo in preparazione ai sacramenti dell’iniziazione cristiana e regolari ore di lezione di religione cattolica a scuola – sono incapaci di dar ragione della propria fede e (per usare un’espressione recente del nostro vescovo Antonello) “di reggere alla discussione e ai confronti” intorno ad essa. Ecco cosa siamo diventati: infedeli di ritorno, bisognosi di essere (ri)evangelizzati.
Ben vengano, perciò, le offerte e il sostegno ai missionari, ma questo non può esaurire l’impegno delle nostre comunità. È necessario che – guardando a quelle lontane popolazioni cristiane – noi sappiamo accogliere ed apprezzarne la freschezza della fede, la forza della spiritualità, la gioia della testimonianza e la partecipazione diretta e corresponsabile del laicato nella conduzione di tutti gli ambiti pastorali della comunità, perché questo può aiutarci a rinnovare la nostra vita di comunità e a riscoprire in profondità il dono della fede che abbiamo ricevuto e che stiamo imperdonabilmente lasciando marcire.