In breve:

Dove sono finiti i cattolici?

Cattolici e politica

di Giuseppe Savagnone (Avvenire)
Non se ne trova più traccia nella vita pubblica del nostro paese. Erano stati i fondatori – insieme ai socialisti e ai comunisti da un lato, ai liberali dall’altro – della nostra Repubblica, dando vita, nella Costituente, a una della Cartecostituzionali più ammirevoli e ammirate del mondo occidentale. Avevano avviato, dopo un regime che aveva annullato la coscienza civile e una guerra disastrosa, la ricostruzione dell’Italia, sia dal punto di vista politico, ripristinando gli stili della democrazia, che da quello dell’economia, creando le basi per quello che fu chiamato il miracolo economico italiano. Avevano soprattutto costituito – e questa era la base di tutto il resto – una classe dirigente, in larga misura provenienti dalle esperienze dell’associazionismo cattolico, ispirata a valori umani e civili che ne guidavano le scelte e che le rendevano, anche quando erano discutibili, comunque rispettabili.
Di tutto questo non rimane oggi neppure il ricordo. La cosiddetta “Seconda Repubblica” li ha visti confluire in ordine sparso, dopo la fine della Democrazia cristiana, nei due poli che hanno dominato la scena da partire dagli anni Novanta del secolo scorso, svolgendovi un ruolo puramente gregario e succubi di ideologie (perché le ideologie non sono affatto morte) lontanissime dai princìpi dell’insegnamento sociale della Chiesa a cui prima avevano cercato di ispirarsi. Quelli che ancora ci sono, spiccano pe la loro irrilevanza. Incapaci di denunziare le aberrazioni dei loro rispettivi fronti politici – si pensi al silenzio di quelli “di centro-destra” di fronte alla linea sui migranti e alla “beatificazione” di un personaggio come Berlusconi; o all’acquiescenza di quelli “di centro-sinistra” su questioni come quella dell’aborto e del fine-vita – hanno svolto in questi anni un ruolo prevalentemente ornamentale.
Questo non ha certo portato fortuna al nostro paese. Lo scollamento della classe politica dalle reali esigenze del bene comune ha portato, da un lato, al formarsi di una “casta” sempre più isolata e alla crescita esponenziale dell’astensionismo alle elezioni nazionali; dall’altro; all’affermarsi di un populismo confuso e aggressivo quanto inconcludente, che ha ridotto la residua partecipazione alla violenza verbale sui social.

Il problema non si può certo risolvere con la ricostituzione di un partito cattolico, che sarebbe ormai anacronistico. Anzi, non si può neppure affrontare direttamente sul piano politico, dove i cattolici sono assenti perché non hanno più niente da dire. Per agire, devono ritrovare la parola e per ricominciare a parlare devono ritornare a pensare. Il vuoto è, alla radice, culturale. Fu innanzi tutto una cultura quella che portarono sulla scena politica, nel dopoguerra, uomini come De Gasperi, Dossetti, La Pira. Ma, ancora più a monte, il vuoto è spirituale. Quegli uomini erano capaci di interpretare la loro fede come vocazione al servizio del bene comune e la loro cittadinanza alla luce di questa vocazione.
È questo retroterra, al tempo stesso culturale e spirituale, che è sparito nelle nostre comunità ecclesiali. Nelle parrocchie si celebrano riti, non si riflette sui problemi della vita nella luce della fede, non ci si confronta sulla realtà del mondo che sta fuori delle mura del tempio. «In chiesa – si ammonisce severamente se qualcuno accenna a queste cose – non si fa politica». Confondendo la propaganda per i partiti con la politica vera, che è attenzione e impegno verso il bene comune. C’è da stupirsi che i giovani fuggano?
È da qui che, se veramente si vuole, bisogna ricominciare. Ci vorrà del tempo, certamente. Ma almeno si starà su una strada che porta fuori dello stallo attuale.

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