L’attesa
di Claudia Carta.
Esperando. Aspettando.
È curiosa l’etimologia che fa derivare la voce verbale spagnola dal verbo latino sperāre. Quasi che la espera, la attesa, si nutra di speranza, di cura, di pazienza. Ancora più curiosa l’assonanza che conduce al sardo spera, aindicare quel barlume di luce che spezza il buio, leggera.
Vero è che non tutte le attese sono buone. Il celebre autore di best seller giapponese, Haruki Murakami, era solito ironizzare sulla porzione di tempo che risponde al per un po’: «una frase la cui lunghezza non può essere misurata. Almeno dalla persona che aspetta».
Ci sono attese pesanti: quelle per una visita medica o una diagnosi precoce – che, proprio perché precoce non può permettersi di attendere –; quella che fa il saliscendi tra liste interminabili per le cure oncologiche; quella per il rinnovo di un contratto di lavoro; quella di chi il lavoro lo ha perso o non lo riesce a trovare; quella di chi si aspetta che cambi qualcosa; quella di chi si è stufato e non vota più; quella di chi non può prendere un aereo perché o i voli non ci sono o costano quanto un terzo dello stipendio (quando c’è); quella di chi, dunque, sceglie la nave, salvo scoprire che di stipendi ne servirebbero due e la nave oggi non arriva perché il mare è grosso, con buona pace del principio di insularità; quella di chi non ha la casa né se la può costruire, con il mutuo ormai incubo ricorrente, figuriamoci se pure a tasso variabile; quella di chi non ha più una scuola dove mandare i figli e deve fare un’ora di strada per trovarne un’altra; quella di chi la strada la fa per andare in banca, o alle Poste, o dal medico di base, o dalla guardia medica…
Quante attese disattese. Non b’at spera.
Anche quella delle elezioni regionali del 25 febbraio è un’attesa. Certo, è difficile non essere d’accordo con Piero Calamandrei: «Chiamare i deputati e i senatori i “rappresentanti del popolo” non vuol più dire oggi quello che con questa frase si voleva dire in altri tempi: si dovrebbero piuttosto chiamare impiegati del loro partito».
Non si pretendono politici perfetti. L’imperfezione, come sosteneva Rita Levi Montalcini, è più una virtù, una condizione da sempre necessaria per correggere se stessi, ragionare sui propri errori, percorrere nuove strade e trovare nuove soluzioni. Sarebbero sufficienti l’onestà morale e intellettuale, l’incontro e l’ascolto, la cultura del servizio, la cura. Perché noi a votare ci andremo, ma quella luce deve risplendere davvero.
Esperandote, Presidente/a.
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