Il diritto del bambino ad avere una famiglia
di Fabiana Carta.
Paola Murino e Maurizio Ligas raccontano la gioia di aver dato a tre bambini la possibilità di avere una famiglia
Possiamo parlare di vocazione, quando si sceglie di adottare dei bambini, a patto che non si facciano differenze con la vocazione di voler diventare genitori di un figlio partorito naturalmente. Ne sono convinti Paola Murino e Maurizio Ligas, che vivono a Lanusei con Luz, Marlon e Brayan, tre fratelli colombiani adottati quasi undici anni fa. «Ci siamo sposati non proprio giovanissimi. I figli non sono arrivati – raccontano – e allo scadere dei tre anni abbiamo pensato che le soluzioni potessero essere due: la fecondazione assistita o l’adozione. Non abbiamo avuto dubbi sulla scelta. Unire due famiglie, la nostra con quella di altri bambini che cercavano dei genitori, per dare loro un’opportunità».
È il 2013 quando intraprendono il percorso, aprendo la strada sia a un’adozione nazionale che internazionale, passando per vari colloqui con lo psicologo, l’assistente sociale e il giudice. «L’adozione nazionale è completamente gratuita, mentre per l’internazionale bisogna affidarsi a un ente. Il rimborso, abbastanza limitato, è previsto, ma arriva dopo anni. Questo per dire che chi sceglie questa strada deve anche far i conti con la disponibilità economica. L’intero iter è durato due anni, il tempo minimo per legge», spiegano.
Prima dell’incontro di persona, la famiglia che adotta si impegna a preparare delle foto e dei video da mostrare ai bambini; allo stesso modo i bambini preparano del materiale da mostrare ai futuri genitori. Come un assaggio degli abbracci e dei sorrisi che arriveranno. «Quando siamo arrivati a Bogotà, in Colombia, abbiamo avuto un incontro preliminare con gli assistenti sociali, sempre accompagnati da una persona dell’ente che ha seguito la nostra pratica, e il giorno dopo c’è stato l’incontro con i bambini. Da quel momento siamo diventati un’unica famiglia».
Il primo incontro – atteso, immaginato, sognato – avviene sempre in maniera standard: una piccola festicciola, con dolci, bibite e qualche regalo per i bambini. Tra l’emozione e l’imbarazzo, per essere sempre sotto lo sguardo degli assistenti sociali, avviene il piccolo miracolo. In questo caso, l’incastro perfetto.
La fusione delle due famiglie è un processo naturale, per due lunghi mesi nella capitale colombiana, senza particolari difficoltà. «Eravamo preparati a tutto – ricorda Paola –: la prima sera ci siamo messi a guardare la televisione tutti insieme nel lettone e i bambini hanno dormito tutta la notte con noi, senza nessun problema. Dopo due giorni abbiamo iniziato a girare per la città. Ho studiato un po’ di spagnolo, cercavamo di comunicare così. È stato molto strano come abbiamo legato praticamente subito».
Arrivati a Lanusei c’è voluto del tempo per adattarsi, come è normale che sia. I bambini avevano sei, sette e undici anni all’epoca, hanno dovuto abituarsi a una lingua e a una cultura completamente diverse dalla loro. «Sicuramente è stata la scelta migliore che potessimo fare. Certe volte c’è il problema che alcune coppie vogliono dei bambini in maniera quasi ossessiva e provano tutte le vie possibili che la scienza offre. Sembra quasi che esista il diritto della coppia ad avere un bambino, ma no, c’è il diritto del bambino ad avere una famiglia. Noi l’abbiamo fatto per dare l’opportunità a dei bambini che hanno avuto qualche problema e per cominciare un progetto di vita insieme. Tante persone, ancora oggi, giudicano la nostra scelta come straordinaria, ma a noi non sembra, perché è stato come accogliere un proprio figlio, non c’è stata nessuna differenza», concludono.
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