In breve:

Guglielmo, storia di un bambino soldato

Bambino soldato

di Fabiana Carta.

Un ragazzino di sedici anni catapultato lontano, in una terra massacrata, pericolosa e violenta, cinquantasette anni fa. Tornato a casa, il passato è ancora un peso doloroso, le difficoltà non mancano. Ma neppure l’amore…

«Questa non è una storia tanto bella da raccontare». Lo dice subito Guglielmo, con voce che trema e occhi lucidi, occhi buoni. Come per volersi difendere, spazzare via un ipotetico giudizio; ma qui non c’è nulla da giudicare, c’è solo da comprendere, accogliere e ascoltare in silenzio.

Guglielmo vive in uno dei tanti paesi ogliastrini, circondato dalla natura e un esercito di simpatici animali: la casa, nella sua straordinaria semplicità, sembra un luogo fuori dal tempo. Ci sono scelte che possono condizionare un’intera vita, segnarla per sempre, come un marchio a fuoco nell’anima. Così è stato per lui, quel giorno di cinquantasette anni fa. Aveva solo sedici anni, era un ragazzino pieno di speranze. «Qualcuno mi raccontò di un annuncio che stava passando alla radio. Cercavano giovani con un grande coraggio, da mandare all’estero in una nazione dove era in corso una guerra. Di coraggio ne avevo abbastanza, così risposi all’annuncio», racconta. La guerra a cui faceva riferimento l’annuncio era in sud America, fra i civili e gli spacciatori di droga.

Dopo qualche mese di addestramento, i ragazzi coraggiosi si ritrovarono carichi di armi da fuoco e sopra un aereo diretto dall’altra parte del mondo. Nessuno di loro, tantomeno Guglielmo, poteva capire esattamente a cosa stavano andando incontro o quanto quell’esperienza, un giorno, si sarebbe rivelata tragica e lacerante. Ma a sedici anni si è anche un po’ incoscienti. Tre lunghi anni in sud America: «Eravamo lì per fare una sorta di pulizia, dovevamo dare la caccia agli spacciatori. C’era chi si arrendeva e patteggiava con la polizia. Purtroppo c’era anche chi si ribellava e ci sparava addosso. In quel caso eravamo costretti a sparare. Però non abbiamo mai fatto male a bambini, donne e anziani: le persone deboli non le abbiamo mai sfiorate», ricorda con dolore ancora vivo. Un gioco al massacro, con regole dure e crude.

Ma in mezzo a questo turbine di violenza, c’è una cosa importante da dire. Ogni volta che Guglielmo ha potuto scegliere fra il bene e il male, ha sempre scelto il bene. «Ci hanno pagato profumatamente per quella missione, ma rientrato in Sardegna ho sentito dentro di me un senso di colpa fortissimo, che non mi ha mai abbandonato. Odiavo quei soldi, odiavo tutto ciò che mi faceva ripensare a quella esperienza, tanto che me ne sono liberato del tutto regalando l’ingente cifra ai miei genitori. È stata una scelta molto difficile».

Adesso immaginate un ragazzino di sedici anni, così tenero nella sua ingenuità e nelle sue speranze, e catapultatelo lontano, in una terra massacrata, pericolosa e violenta. Immaginate di trasformarlo in un soldato, di punto in bianco. Dopo tre anni, cosa resta di quel ragazzino? «Ho pregato Dio sempre, perché mi facesse scordare tutto. Ho cercato di superare questo trauma pensando soprattutto al bene che ho fatto a quelle popolazioni. Ci hanno voluto bene».

Dopo il ritorno in Ogliastra, Guglielmo ha lavorato tanto, ma l’ombra nera di questa esperienza non lo ha mai abbandonato. Un peso grande che ha condizionato tutta la sua non semplice esistenza. Dopo una serie di altre piccole tristi vicende, Guglielmo ha trovato il supporto della Caritas diocesana. Un luogo dove si sente accolto e ascoltato. «Ho svolto qualche lavoretto all’interno della Caritas e poco tempo fa ho dovuto chiedere aiuto per pagare bollette con cifre altissime. Ma cerco di limitarmi nel chiedere aiuto, ci sono tante altre persone che hanno bisogno. Non sono un tipo da grandi pretese, mi basta l’amore della mia famiglia», conclude.

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