Una effervescenza contagiosa
di Claudia Carta.
Al netto dei “cinguettii” ironici su Twitter da parte di qualche blasonato club di serie A, il terzo scudetto conquistato meritatamente e in maniera convincente dal Napoli di Luciano Spalletti in un campionato oramai agli sgoccioli, ha incuriositoe, in fondo, appassionato un po’ tutti. Qualcuno lo ha definito uno scudetto mondiale, forse perché i tifosi partenopei, sparsi in ogni angolo della terra, a tutto possono rinunciare tranne che alla propria appartenenza calcistica o forse perché, da sempre, a Napoli il calcio è un fenomeno sociale.
Non chiamatelo scudetto del riscatto. Per carità. I napoletani ci rimarrebbero male.
Il sociologo Francesco D’Ambrosio ha così definito il contesto: «La storia del calcio Napoli si è sviluppata con e attraverso l’evoluzione e la crescita dei napoletani e della città stessa: da sempre cosmopolita, è stata tuttavia sempre simbolo di un Sud sfaccendato, menzognere e disagiato. Ragion per cui una riscossa data dal turismo, la valorizzazione del territorio, le eccellenze culturali, l’abbattimento degli stereotipi, non ha viaggiato separatamente dallo sport, ma proprio da lì ha tratto la sua maggior forza propulsiva: i risultati calcistici divengono veri e propri trofei personali per la popolazione».
Dalle partite allo stadio, a quelle seguite in Tv o alla radio, fino ai preparativi della festa esplosa alle 22.47 del 4 maggio scorso, in una Napoli colorata di azzurro dal Vesuvio a Castel dell’Ovo, il segreto è racchiuso in quello che un altro sociologo, Émile Durkheim, ha definito concetto di effervescenza collettiva, laddove sussiste una relazione tra il corpo e l’emozione che si sta vivendo: «Azioni e gesti comuni hanno il potere di suscitare emozioni appassionate e contagiose tra le persone. Così, l’adunanza e l’interazione sociale possono, al loro massimo livello, generare una sorta di elettricità che lancia le persone verso uno straordinario stato di esaltazione, utilizzato e reiterato attraverso i rituali della comunità di appartenenza».
Lo sport è un “generatore di comunità”, ha detto Papa Francesco, crea condivisione, partecipazione e senso di appartenenza. A Napoli lo vivono all’ennesima potenza, forse perché, come ha sottolineato Ottavio Bianchi, il tecnico del primo tricolore partenopeo (1986/87), «il calcio è qualcosa che i napoletani portano dentro la vita di tutti i giorni».
Il motto olimpico vale anche in questo caso: ci sono obiettivi citius, altius, fortius, quelli più veloci, più alti e più ardui. Metafora della vita che a Napoli ha un sapore diverso. Il segreto della gioia incontenibile che ha conquistato tutti.
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