In breve:

Non è un Paese di giovani

Weber

di Augusta Cabras.

Pochi bambini, pochi giovani e molti anziani. Poche famiglie, paesi che si spopolano e che nel corso dei prossimi trent’anni non ci saranno più. Un quadro a tinte fosche in cui però si scorgono spiragli di speranza per il futuro. Ne abbiamo parlato con l’esperto, Roberto Weber

I numeri non lasciano molto spazio all’interpretazione. L’ultimo report sulle previsioni della popolazione residente e delle famiglie in Italia, pubblicato nel mese di settembre del 2022 dall’Istat, è chiarissimo e conferma la presenza di un potenziale quadro di crisi.

Nel report è scritto: «La popolazione residente è in decrescita: da 59,2 milioni al 1° gennaio 2021 si passerà a 57,9 milioni nel 2030, a 54,2 milioni nel 2050 fino a 47,7 milioni nel 2070.

Il rapporto tra individui in età lavorativa (15-64 anni) e non (0-14 e 65 anni e più) passerà da circa tre a due nel 2021 a circa uno a uno nel 2050.

Sul territorio entro 10 anni in quattro Comuni su cinque è atteso un calo di popolazione, in nove su 10 nel caso di Comuni di zone rurali.

In crescita le famiglie, ma con un numero medio di componenti sempre più piccolo. Meno coppie con figli, più coppie senza: entro il 2041 una famiglia su quattro sarà composta da una coppia con figli, più di una su cinque non ne avrà».

Continuando a leggere i dati, emerge che nel 2021 i nati sono 400.249, dato che fa registrare un calo dell’1,1% sull’anno precedente (-4.643). E la denatalità prosegue anche nel 2022. Secondo i dati provvisori di gennaio-settembre le nascite sono circa 6 mila in meno rispetto allo stesso periodo del 2021. Il numero medio di figli per donna, per il complesso delle residenti, risale lievemente a 1,25 rispetto al 2020 (1,24). Negli anni 2008-2010 era a 1,44.

E in Sardegna? La situazione è decisamente critica anche perché si registra il tasso più basso di natalità. Abbiamo raggiunto al telefono Roberto Weber, fondatore e presidente di SWG, che progetta e realizza ricerche di mercato, di opinione, istituzionali, studi di settore e osservatori, analizzando e integrando i trend e le dinamiche del mercato, della politica e della società. Con lui abbiamo cercato di capire meglio la situazione. «Intanto la prima sensazione è che la popolazione sarda – spiega Weber – pensa che le cose che accadono in Sardegna siano delle specialità della regione, che siano peculiari. Se mettiamo a confronto i dati della Sardegna con quelli delle altre regioni, ci rendiamo conto che non è esattamente così. Anche rispetto alla pandemia, nell’immaginario collettivo dei sardi c’è la convinzione che abbia toccato in particolar modo l’Isola, ma non è così. Alcuni elementi di fondo però ci sono, a suffragare la tendenza a percepirsi isolati e con specificità. Se pensiamo al nord Italia, alla situazione dei trasporti, alla possibilità di raggiungere le metropoli, alle interconnessioni, vediamo che questo non è certamente un problema, mentre per la Sardegna questo è uno dei principali problemi. Il dato sulla denatalità riguarda tutto l’Occidente e l’Italia in maniera marcatissima. Le ragioni sono molteplici e investono caratteri strutturali, pensiamo a come lo Stato italiano, rispetto anche ad altri Stati Europei interviene e sostiene (o non sostiene) la famiglia. Ma ci sono almeno altri due elementi che, secondo il mio punto di vista, entrano in gioco: la dimensione edonistica, decisamente più presente che in passato, per cui pensare a un figlio significa pensare di effettuare delle grandi rinunce, e l’irrompere del fattore femminile. In molteplici luoghi di lavoro, infatti, c’è una presenza femminile che prima non c’era, pertanto la realizzazione personale delle donne, non passa, come tempo fa, solo per la maternità».

Il dato della denatalità in Sardegna però è un dato oggettivo e non solo percepito. «Certo, come è oggettivo l’isolamento e a seconda della zona in cui si vive, del doppio isolamento. Le faccio un esempio: io vivevo a Trieste e mi spostavo per lavoro tre, quattro volte alla settimana in altre città. Da qualche anno vivo stabilmente a Roma e se metto sulla bilancia le opportunità che offre Roma con quelle che offre Trieste, non c’è paragone! Ovviamente è più ricca Roma. Questo per dire che le persone si spostano dove ci sono più opportunità».

Ma allora come si può interrompere o invertire il circuito per cui ci sono sempre meno servizi perché non ci sono residenti e ci sono sempre meno residenti perché non ci sono i servizi? È indubbio che servano importanti investimenti per l’attivazione dei servizi per l’infanzia, per supportare la conciliazione famiglia/lavoro. «Certamente. Servono investimenti sulla scuola, (e la Sardegna è tra i primi posti per abbandono scolastico), sulla sanità, sulle infrastrutture, sulla cultura».

In questo quadro a tinte fosche, è possibile scorgere spiragli di luce e speranza? «Per il futuro che viene, lasciando stare la congiuntura attuale, anche per una logica di equilibrio ecologico, la Sardegna è molto ben messa. Il solo fatto che c’è una sottolineatura forte rispetto al rapporto con l’ambiente, con la natura, questo è foriero di un potenziale futuro positivo e ci sono buoni segnali. Pensiamo al turismo sostenibile, al turismo diffuso. Io sarei ottimista, in relazione alla Sardegna, lo sarei meno se pensassi alla Lombardia, ad esempio. Perché il percorso di rilettura che dovrebbero fare è più pesante, soprattutto in relazione al loro modo di stare nel territorio. Se loro devono rivedere alcuni stili di vita, che saranno necessari per tutti, fanno molta più fatica. Faccio un altro esempio: mancavo da Palermo da tantissimi anni, e tornandoci mi sono accorto che c’è una ripresa potente dal punto di vista culturale, sempre più diffusa. I cambiamenti ci sono, si tratta di capire se sono sufficienti e se sono sufficientemente accompagnati dallo Stato e da istituti privati. C’è una dinamicità culturale, anche in Sardegna, che i media sono i primi a negare e il ritratto che viene offerto al popolo non è mai adeguato».

Intanto noi teniamo accesa la speranza di futuro.

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