di Tonino Loddo
Da che mondo è mondo o, almeno, da quando ci ha provato Adamo, quello dello scaricabarile è uno dei mestieri più praticati del mondo: la colpa di tutto ciò che di non positivo accade intorno a noi è sempre degli altri. Tutto e puntualmente. Ciò vale anche per il lavoro che non c’è. A parte, ovviamente, il governo (colpevole di tutto per definizione), le colpe vanno – con ampia varietà di scelta – alla scuola che non prepara adeguatamente, ai sindacati che si preoccupano solo di fare faraoniche quanto infruttuose manifestazioni, alla congiuntura della finanza internazionale, allo spread, allo strapotere delle multinazionali, all’ingordigia dei padroni, al tempo, alle stagioni e a chi più ne ha più ne metta …
Soprattutto, si agita la carenza delle risorse che il Governo mette a disposizione della crescita e la sua totale inazione in materia legislativa. Una cosa è chiara: con le leggi non si crea lavoro. Recentemente, a Catania il ministro Poletti è stato finalmente costretto ad ammetterlo. A meno che la legge non “inventi” il lavoro. Ma il lavoro creato dal nulla coincide con tutti quei falsi impieghi propinati in anni e anni di pubblico assistenzialismo che hanno riempito di macerie industriali le contrade della nostra Isola. E dunque? Non c’è davvero alcuna via d’uscita al dramma della mancanza di lavoro?
I vescovi sardi così scrivevano nella loro recente Lettera pastorale sui più urgenti problemi sociali e del lavoro dal titolo Un cammino di speranza per la Sardegna: “Noi credenti abbiamo un’opinione di società improntata ai valori della giustizia sociale, della libertà, della solidarietà. Quando vengono a mancare questi ideali, si manifestano con maggiore forza i problemi che abbiamo già precedentemente evidenziati”.
Mi pare che la possibile soluzione alla domanda che ci siamo appena posti sia tratteggiata esattamente in queste parole che evidenziano come il problema di fondo sia innanzitutto un problema di responsabilità.
Per intenderci, dicono i vescovi, non c’è futuro occupazionale per nessuno se non si comincia ad agire pensando che tutti (ma proprio tutti!), ai diversi e vari livelli della partecipazione sociale, dobbiamo sentirci solidarmente responsabili di quanto ci accade intorno, nel senso che le nostre azioni vanno valutate per le conseguenze che hanno non solo nei nostri personali confronti o nei confronti dei nostri familiari/amici più prossimi, ma anche di tutti i nostri contemporanei e perfino di coloro che non sono ancora venuti al mondo.
Dobbiamo, cioè, applicare il principio di responsabilità ad ogni nostro gesto, imparando a prendere in considerazione le conseguenze future di tutte le nostre scelte e di tutti i nostri atti. Comprenderemo, allora,
che tutti – senza alcuna eccezione – siamo responsabili del lavoro che non c’è.
Questo discorso richiama in primo luogo la responsabilità di chi ha ricevuto un mandato per governare i processi sociali nella loro globalità, ma non esclude nessuno di noi. Perchè governare globalmente i processi significa pensare che compito della politica non è quello di dare lavoro ad A o a B, ma quello di creare le condizioni perchè A e B, ed anche C, D … X, Y e Z abbiamo la possibilità di trovare un lavoro. Ma ciò comporta anche
che tutti noi (ma proprio tutti!) la smettiamo di andare a tirare la giacchetta al politico di turno, nella convinzione che solo un’amicizia influente possa garantire un posto di lavoro; e, di converso, che i politici comincino a pensare (almeno quelli che ne sono capaci, e certamente li si può scegliere meglio!!!) che il loro compito è ben altro dal fare le commissioni per conto di A e B o di pietire posti di lavoro all’imprenditore cui hanno concesso finanziamenti inopportuni proprio in previsione di tale scambio.
Insomma, proviamo a pensare che il problema sia un problema di tutti e che nessuno può tagliarsene fuori. E qualcosa certamente cambierà!
Il lavoro che non c’è. E se ricominciassimo da noi?
di Tonino Loddo
Da che mondo è mondo o, almeno, da quando ci ha provato Adamo, quello dello scaricabarile è uno dei mestieri più praticati del mondo: la colpa di tutto ciò che di non positivo accade intorno a noi è sempre degli altri. Tutto e puntualmente. Ciò vale anche per il lavoro che non c’è. A parte, ovviamente, il governo (colpevole di tutto per definizione), le colpe vanno – con ampia varietà di scelta – alla scuola che non prepara adeguatamente, ai sindacati che si preoccupano solo di fare faraoniche quanto infruttuose manifestazioni, alla congiuntura della finanza internazionale, allo spread, allo strapotere delle multinazionali, all’ingordigia dei padroni, al tempo, alle stagioni e a chi più ne ha più ne metta …
Soprattutto, si agita la carenza delle risorse che il Governo mette a disposizione della crescita e la sua totale inazione in materia legislativa. Una cosa è chiara: con le leggi non si crea lavoro. Recentemente, a Catania il ministro Poletti è stato finalmente costretto ad ammetterlo. A meno che la legge non “inventi” il lavoro. Ma il lavoro creato dal nulla coincide con tutti quei falsi impieghi propinati in anni e anni di pubblico assistenzialismo che hanno riempito di macerie industriali le contrade della nostra Isola. E dunque? Non c’è davvero alcuna via d’uscita al dramma della mancanza di lavoro?
I vescovi sardi così scrivevano nella loro recente Lettera pastorale sui più urgenti problemi sociali e del lavoro dal titolo Un cammino di speranza per la Sardegna: “Noi credenti abbiamo un’opinione di società improntata ai valori della giustizia sociale, della libertà, della solidarietà. Quando vengono a mancare questi ideali, si manifestano con maggiore forza i problemi che abbiamo già precedentemente evidenziati”.
Mi pare che la possibile soluzione alla domanda che ci siamo appena posti sia tratteggiata esattamente in queste parole che evidenziano come il problema di fondo sia innanzitutto un problema di responsabilità.
Per intenderci, dicono i vescovi, non c’è futuro occupazionale per nessuno se non si comincia ad agire pensando che tutti (ma proprio tutti!), ai diversi e vari livelli della partecipazione sociale, dobbiamo sentirci solidarmente responsabili di quanto ci accade intorno, nel senso che le nostre azioni vanno valutate per le conseguenze che hanno non solo nei nostri personali confronti o nei confronti dei nostri familiari/amici più prossimi, ma anche di tutti i nostri contemporanei e perfino di coloro che non sono ancora venuti al mondo.
Dobbiamo, cioè, applicare il principio di responsabilità ad ogni nostro gesto, imparando a prendere in considerazione le conseguenze future di tutte le nostre scelte e di tutti i nostri atti. Comprenderemo, allora,
che tutti – senza alcuna eccezione – siamo responsabili del lavoro che non c’è.
Questo discorso richiama in primo luogo la responsabilità di chi ha ricevuto un mandato per governare i processi sociali nella loro globalità, ma non esclude nessuno di noi. Perchè governare globalmente i processi significa pensare che compito della politica non è quello di dare lavoro ad A o a B, ma quello di creare le condizioni perchè A e B, ed anche C, D … X, Y e Z abbiamo la possibilità di trovare un lavoro. Ma ciò comporta anche
che tutti noi (ma proprio tutti!) la smettiamo di andare a tirare la giacchetta al politico di turno, nella convinzione che solo un’amicizia influente possa garantire un posto di lavoro; e, di converso, che i politici comincino a pensare (almeno quelli che ne sono capaci, e certamente li si può scegliere meglio!!!) che il loro compito è ben altro dal fare le commissioni per conto di A e B o di pietire posti di lavoro all’imprenditore cui hanno concesso finanziamenti inopportuni proprio in previsione di tale scambio.
Insomma, proviamo a pensare che il problema sia un problema di tutti e che nessuno può tagliarsene fuori. E qualcosa certamente cambierà!