Elogio del volto non prepotente
di Mons. Antonello Mura.
Che l’onestà e la correttezza non siano di moda non è una novità. Forse non lo sono mai state, né lo saranno. Ma è sempre triste scoprire che non mancano i furbetti e che dietro l’angolosi nascondono tanti ingannatori. Così come fa male accorgersi che molti sono disposti a perdere dignità e coerenza in cambio di qualche guadagno materiale.
Essere e mostrarsi irreprensibili non sembra facilmente appartenere al registro quotidiano. E ne soffrono la giustizia e l’educazione, quindi la vita sociale. La voglia matta di superare gli altri e di arrivare davanti a loro, come se fossimo in una eterna competizione sportiva, non ha proprio nulla di sportivo, anzi altera la vita personale e quella comunitaria.
Educare, ad esempio, i bambini e i giovani a riconoscere e a incontrare i volti degli altri significa metterli contemporaneamente a contatto con la bellezza, con l’arte, con la natura, con la spiritualità, con la poesia, con le fiabe, con la letteratura. Questo fa fiorire gratitudine e condivisione, evitando di alimentare uno sguardo prepotente e pretenzioso sugli altri e sulla vita.
Come ci hanno insegnato le intuizioni di Levinàs, filosofo della “civiltà dei volti”, noi abbiamo bisogno di relazioni che riconoscano il volto dell’altro senza invadenze, arroganze e prepotenze, atteggiamenti che hanno già creato squilibri e tragedie immani. Abbiamo bisogno di volti da guardare e stimare, da accarezzare, non ignorandone la dignità né facendo mancare il rispetto. Come opporsi allora a chi sceglie, per “vincere” a tutti i costi, l’arroganza e la menzogna, anche nelle parole? Un proverbio arabo recita: «Ogni parola, prima di essere pronunciata, dovrebbe passare attraverso tre porte. Sulla prima c’è scritto: È vera? Sulla seconda c’è la domanda: È necessaria? Sulla terza porta è scolpita la scritta: È buona?».
Molti atteggiamenti si correggono solo riconoscendo che rischiamo di non accettare e riconoscere gli altri, e quando parliamo siamo tentati di essere menzogneri. Con una parola simulatoria cerchiamo, infatti, di fare credere all’altro ciò che noi non crediamo, di manipolare chi ci sta di fronte, di dire solo ciò che piace al nostro interlocutore, di tacere ciò che pensiamo. Questa è la menzogna che sopprime la fiducia e indebolisce ogni rapporto.
Papa Francesco ricorda nell’enciclica Evangelii gaudium (n. 178) che formare cittadini appartiene al percorso dell’evangelizzazione. Quando invece si cerca di vincere, più che di convincere, spinti solo dall’ansia da prestazione; quando si è preoccupati solo dei risultati e si è complici di comportamenti che considerano l’onesto e il corretto un “perdente”, allora ci può salvare solo una rinnovata sensibilità nei confronti del vero, del giusto e del bello.
Chi allora intende impegnarsi nel distinguere, dentro di sé e nella società, il vero dal falso, la correttezza dall’imbroglio, inizi dunque ad apprezzare e a incoraggiare chi sa mantenere la parola data, ed è leale nelle parole e nelle azioni; chi non privilegia (e sceglie) gli amici perché “un giorno ti possono servire”; chi, per rimanere coerente con i suoi principi, evita il guadagno facile e – ma si potrebbe continuare – stima di più chi non coltiva sentimenti di rancore o di invidia.
C’è, infatti, nella correttezza un fascino, sempre discreto, che rende liberi e sereni. Che senza far diminuire l’annuncio della verità rende anche credibile la denuncia del suo tradimento. In tutti i luoghi e in tutti gli ambiti.
Lascia un Commento