In breve:

Antonio Conigiu. La perennità sulla pelle

Antonio Conigiu

di Alessandra Secci.

Si fa presto a chiamarlo tatuatore.
La passione che muove Antonio Conigiu, villagrandese doc di stanza ad Ardea, è così recondita che non si può che parlare di arte. È l’arte, infatti, ad animarlo, ben prima di diplomarsi come geometra, alla fine degli Anni Ottanta, a Nettuno: l’evoluzione della professione è stata pazzesca, nonostante ancora oggi resistano, dopo tanto tempo, sacche pregiudiziali difficili da estirpare. Ma il percorso di quest’arte – così affascinante eppure bistrattata, incompresa –, della sua “emancipazione” sociale, e quello personale e professionale di Antonio, si intrecciano inesorabilmente.

Pioneristica.

«Mi dedico all’arte a 360° sin da ragazzino – racconta – la pittura ad olio, che di recente ho messo da parte, mi affascina da anni, ma preferisco tenere questa e la mia attività lavorativa separate, pur essendo due forme d’arte. È stato difficile perseverare nel proposito di continuare su questa strada, sono partito verso il continente nel 1987, subito dopo il servizio militare; a Tortolì ho collaborato, quasi “a bottega” da Claudio Zaini, milanese trapiantato in Ogliastra. Nel 1995 ho aperto lo studio a Tor San Lorenzo, con milioni di difficoltà, a partire da quelle di carattere tecnico: l’attrezzatura era ridotta all’osso, gli aghi erano sfusi, andavano saldati, controllati e sterilizzati. Spesso le domeniche erano interamente dedicate a questo passaggio, rognosissimo, che però mi consentiva di stare tranquillo durante tutta la settimana; anche le macchinette e i pigmenti erano “autoprodotti”, pure perché non vi era una rete di distribuzione come quella odierna. La Svolta del ’98, come la chiamo io – (con l’avvento cioè delle circolari ministeriali del 5 febbraio e del 16 luglio, nelle quali si chiarirono per la prima volta le linee guida da tenere per eseguire i tatuaggi e i piercing in condizioni di sicurezza, ndr) – ha dotato la categoria di un minimo di inquadramento, collocandoci negli artigiani, garantito la tutela di cui avevamo bisogno e dato finalmente quella dignità professionale che è sempre mancata. Anche se è questo è il risvolto felice della storia».

Il lato romantico.

«Il rovescio della medaglia – prosegue – è l’eccessivo sdoganamento che la professione ha subìto. Se da un lato, infatti, quella certa aurea pregiudiziale che avvolgeva anche noi operatori – spesso messi alla stessa stregua dei delinquenti nostri committenti, gli unici che potevano permettersi (economicamente ma non solo) il tatuaggio – è progressivamente svanita, lasciando fortunatamente spazio, come detto poc’anzi, alla rivalutazione morale della professione e a un dignitoso incasellamento lavorativo, dall’altro, in breve, si è assistito all’inesorabile perdita di quella magia, quel misticismo da cui il tatuaggio e l’atto del tatuare erano composti. All’attività si avvicinavano sempre più persone, ma con poca dimestichezza e ancora meno passione: la Regione Lazio istituì persino dei corsi di brevissima durata (90 ore) in cui si impartivano i primi rudimenti della professione, ma è chiaro che un lasso di tempo così risicato non può competere in un settore nel quale l’esperienza pluriennale è ciò che fa la differenza, ed è anche raro che si presenti la possibilità di andare a bottega, cioè di poter imparare pazientemente il mestiere presso altre realtà. Altra nota dolente, sul versante della rappresentazione pura: inorridisco nel vedere strafalcioni su pelle, che non tengono conto della giusta composizione e dinamicità che un lavoro deve avere. Rappresentare, ad esempio, una peonia e un crisantemo insieme, in una struttura narrativa che segue l’andamento ciclico del tempo e delle stagioni, significa snaturare il tutto, e questo non è mai un bene. E Internet, da questo punto di vista, non è certamente stato d’aiuto, anzi: quei codici di cui sopra sono stati travisati, mescolati, confusi. E si è praticamente perduta l’essenza di un’arte antica (in Giappone e altri contesti è una tradizione plurisecolare) che invece merita maggiore attenzione e serietà di esecuzione».

Ragione e pentimento.

«Qualunque esse siano, le immagini rappresentate – prosegue Antonio – rivestono un’importanza fondamentale anche per il loro carattere peculiare: la loro perennità. Un quadro, una tela, un muro bianco sono reversibili, l’epidermide no. Io stesso possiedo ancora traccia dei miei primi tatuaggi, orrendi, malfatti, scoloriti: ma sono io, è la mia storia, e anche se li includo in altri più grandi e marcati, restano, a ricordarmi chi sono. In tanti propendono per la cancellazione con diverse tecniche, tra cui il laser: anche questa, una diretta conseguenza di quelle leggerezza e scarsità di contenuti a cui si faceva cenno. Così all’eternità si innesta (e a volte si sostituisce) la temporaneità. Ed è un peccato: il tatuaggio non è per i pentiti».

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