Il teatro, la mia gioia
di Fabiana Carta.
Tutti gli attori sono avvolti da un’aura di fascino, dovuta – forse – al privilegio di poter vivere 10, 100, 1000 vite dentro i personaggi che interpretano. Le ragioni per le quali ci si inoltra nel mondo del teatro sono le più disparate, accade anche per caso, come è successo a Silvia Cattoi.
Racconta della sua La Spezia, città di mare, dove ha frequentato un laboratorio pomeridiano di teatro, tenuto da Alberto Cariola. Non sa dirmi perché in seconda superiore fece questa scelta, ma di certo segnò per sempre il suo futuro. «L’anno successivo a quel corso – spiega –, Cariola ha fondato una compagnia teatrale con altre persone di La Spezia e io sono entrata a farne parte. Abbiamo messo in scena diversi spettacoli, fatto viaggi in Italia e all’estero per vedere esiti scenici, mossi da una fame di conoscenza e di curiosità per tutto quello che riguardava il teatro».
Poi il solito bivio: seguire il cuore o la logica, Tecniche Bancarie a Siena o il Dams a Bologna? «Fu mia madre a guardarmi negli occhi e a dirmi: “Vai a Bologna” – ricorda –. Il DAMS in quegli anni era il crocicchio delle migliori menti, professori eccezionali (purtroppo quasi tutti morti) che studiavano, ragionavano, scrivevano di teatro». Gli anni più belli della sua vita, quelli che segnano, formano, costruiscono idee, sogni e ideali.
Dopo la laurea si cimenta in un corso di formazione superiore per attori all’Emilia-Romagna Teatro, continua lo studio partecipando a vari seminari fino al lavoro con la compagnia di danza Aldes di Roberto Castello e Alessandra Moretti, con la quale gira i migliori festival italiani ed esteri. All’età di trentatré anni sente quello che lei definisce il richiamo della foresta, ovvero il desiderio forte di maternità, più forte di qualsiasi altra cosa: in quegli anni nascono Yamina, Naima e Django. I figli modificano le priorità e le esigenze: era chiaro che l’approccio lavorativo dovesse cambiare. «Insieme a Juri Piroddi – continua – ho pensato che se avessimo voluto continuare a fare teatro avremmo dovuto costituire una nostra compagnia teatrale e ritagliarci il lavoro su misura, facendolo combaciare con le esigenze dei nostri figli. Così nel 2002 ci siamo trasferiti ad Arbatax e abbiamo fondato la compagnia Rossolevante».
Cambio di scena. L’Ogliastra l’ha adottata diciotto anni fa, ha fatto da sfondo alla crescita della famiglia e alla nuova realtà lavorativa. Ci sono incontri che cambiano e influenzano le nostre scelte, persone così carismatiche con un bagaglio di emozioni e storie che travolgono come un treno, così è stato con Giammarco Mereu: «Giammarco è un invalido sul lavoro: in seguito a un grave incidente è rimasto paraplegico (abbiamo parato della sua vicenda qualche anno fa, ndr). Lo spettacolo Giorni rubati racconta la sua storia, una narrazione scenica che aveva fin da subito la voglia di urlare a gran voce la rabbia contro il dato tristemente invariato da anni: ogni giorno in Italia tre persone perdono la vita sul lavoro e molti rimangono invalidi». Uno spettacolo unico nel suo genere: Giammarco da operaio si è reinventato attore scuotendo gli animi delle platee di tutta Italia.
«Numerosissime le repliche fatte, molti anni passati insieme a viaggiare, fare spettacoli, incontrare gente, visitare luoghi – prosegue Silvia Cattoi –. Esperienze che ci hanno trasformati nel profondo, che mi hanno fatto capire che salire su un palco deve essere sempre una questione di vita o di morte, che se si decide di fare quel piccolo passo sul palco, dalla realtà quotidiana a una più alta, bisogna farlo solo se si ha qualcosa da dire».
Da Giorni rubati sono nati altri spettacoli, fino allo scoppio della pandemia, che ha tagliato le gambe anche al teatro. Sparito il pubblico, le piazze, i palcoscenici, che cosa resta? Resta il bisogno urgente di trovare un altro modo per esprimersi: «Io non ho smesso nemmeno un giorno di continuare a fare il mio lavoro, come forma di sopravvivenza – sottolinea –. Parallelamente al lavoro di palco, ho scoperto un nuovo mezzo, quello del video, per sperimentare nuove forme di espressione. Il teatro non può essere sostituito con niente. Quindi mi sono messa dietro una telecamera non per riprendere il teatro, ma per scoprire e approfondire un altro linguaggio». Adattarsi ai tempi che corrono, per sopravvivere, appunto. «Durante la prima fase della pandemia – racconta – ho girato un corto con il cellulare, con i miei figli in veste di attori. Ora noi di Rossolevante abbiamo cominciato ad acquistare dell’attrezzatura (camera, microfoni, etc.) e abbiamo realizzato un mediometraggio, altri sono in cantiere. Mai smettere di mettersi in gioco e di imparare. Mai smettere di essere curiosi», conclude Silvia.
Si sostiene che non sarà più possibile pensare al teatro, agli spettacoli, nei modi precedenti alla pandemia. Chissà. Quello di Silvia Cattoi è un atto di resistenza. Quando il teatro è tutta la tua vita.
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