In breve:

Il cuorgiver

Caregiver

di Augusta Cabras.
In Italia sono otto milioni. Ogni giorno si prendono cura di un familiare sofferente: lo lavano, lo vestono, gli curano le ferite, accolgono il suo dolore e la sua speranza, gli danno da mangiare e da bere. 365 giorni l’anno. Spesso per una vita intera
In inglese è il caregiver. In italiano non basta una parola, perché il caregiver è colui che si prende cura quotidianamente di una persona anziana o con disabilità, sia esso un familiare oppure un soggetto estraneo al contesto di famiglia.
Secondo l’Istat sono oltre 8 milioni coloro che in Italia si prendono cura di chi ha bisogno, oltre il 17% della popolazione. Solo una piccolissima parte, circa 900mila, lo fa per mestiere, rientrando nella categoria dei badanti. Tutti gli altri sono uomini e soprattutto donne, per la maggior parte di età compresa tra i 45 e i 64 anni, che assistono un familiare: coniuge, convivente, genitore, figlio/a, sorella o fratello, ammalato, invalido o non autosufficiente.
La malattia spesso arriva improvvisa e inaspettata, a stravolgere vite serene, ordinarie e ordinate dalla routine del tempo; altre volte è il risultato dell’evoluzione naturale della vita e del conseguente invecchiamento, altre ancora accompagna dalla nascita o dalla più tenera età e solo il passare del tempo, l’impegno e la fatica ricompongono il puzzle di una vita per la quale si è temuto il peggio.
E per un congiunto non è mai semplice convivere con la malattia dell’altro, in qualunque tempo arrivi e in qualsiasi forma si presenti. La sofferenza di un familiare è inevitabilmente sofferenza propria, amplificata dall’implacabile desiderio di portare sollievo e dalla responsabilità di garantire una vita dignitosa, nonostante tutto. E tra chi assiste e chi è assistito si consuma una delle più alte forme d’amore, in un rapporto dichiaratamente asimmetrico ma ugualmente reciproco.
Ci vuole coraggio, sì. Ci vuole pazienza. Ci vuole capacità di riconoscere la possibilità della fragilità come parte integrante dell’esistenza. Serve fare a pugni e poi riconciliarsi con l’incognita delle evoluzioni, delle trasformazioni, dell’incedere della vita tra strappi e cicatrici, tra speranza e rassegnazione. E così, colui o colei che assiste impara l’arte della cura, della carezza, della sopportazione del dolore che urla, che cerca strade e si fa spazio; impara a riconoscere i segni, quelli buoni e quelli che annunciano una caduta; fa i conti con un futuro diversamente immaginato, elabora sensazioni e sentimenti, attraversa l’imbarazzo di un’intimità obbligata, supera il fastidio per le naturali necessità di un corpo dolente, accoglie modi, maniere, stereotipie, comportamenti fuori dalla consuetudine, asciuga il sangue che stilla da corpi e menti sofferenti. Spesso in solitudine e con pochi aiuti. Così abbondano le notti insonni, il tempo passato a trovare il medico giusto, le cure mediche che funzionino, a far valere i diritti del malato e poi, forse, anche i propri.
Da alcuni recenti studi sul mondo dell’assistenza familiare e su questa moltitudine che volontariamente presta assistenza ai familiari, il quadro che emerge restituisce qualche ombra. L’elevato carico assistenziale è senza dubbio il primo segno negativo che incide sulla saluta stessa della persona che assiste. Il caregiver in molti casi subisce la fatica, l’isolamento sociale, la riduzione della qualità della vita e la compromissione delle relazioni familiari. Lo stress aumenta, portandosi dietro uno strascico di conseguenze che pesano sul fisico e sulla mente, determinando un circolo vizioso da cui è difficile liberarsi. Questo perché si addossa, in assistenza continua, situazioni che richiederebbero il sostegno di altre persone, in una rete più ampia di servizi, di solidarietà, di prossimità.

In Sardegna, rispetto anche ad altre regioni, qualcosa si sta facendo per poter affiancare le famiglie con servizi specifici, dall’assistenza domiciliare all’assistenza educativa individualizzata. Serve però intervenire sul profilo normativo con tutele nei confronti di queste persone poiché attualmente la figura del caregiver familiare non è né riconosciuta, né tutelata, a parte qualche timido tentativo, nonostante il loro lavoro (o missione) supplisce anche all’assenza di servizi socio-sanitari integrati. Se guardassimo la situazione da un’altra prospettiva potremmo affermare, senza il minimo dubbio, che l’operato di questo gran numero di assistenti, pur non producendo reddito, fa risparmiare al sistema nazionale una quantità enorme di denaro. Pertanto, se nei bilanci ci fosse anche la voce “risorse economiche risparmiate” questa forse sarebbe al primo posto e queste persone meno invisibili.
Eppur qualcosa si muove. Al Senato e alla Camera dei Deputati, sono stati depositati disegni e progetti di legge che coinvolgono numerosi parlamentari, segno che l’interesse per il tema è alto. Attualmente è in corso di esame in commissione al Senato il Disegno di Legge 1461 Disposizioni per il riconoscimento e il sostegno del caregiver familiare, in cui si ribadisce il valore sociale ed economico di questa figura e vengono introdotti nuovi elementi, in particolare, la nomina del caregiver familiare, i contributi figurativi, equiparati a quelli del lavoro domesticofino a un massimo di tre anni, interventi per conciliare il lavoro (quando si riesce a mantenerlo, perché il 66% dei caregiver familiari è costretto ad abbandonarlo) e quelle di assistenza. A tutti i livelli: Unione Europea, Stato e Regione, serve che si dia un’accelerata al loro riconoscimento e al loro supporto. Per poter dare assistenza serve infatti stare bene, serve non rinunciare alla propria vita, alla propria salute, al proprio futuro. Ogni caregiver deve poter continuare il suo viaggio personale senza rinunciarvi.
Ce lo insegna anche il Vangelo. Il buon samaritano, nel suo viaggio incontra il sofferente, lo cura, gli fascia le ferite, versa su di esse olio e vino e se ne fa fisicamente carico. Compie insieme a lui un tratto di strada, lo accompagna in una locanda, lo affida a un’altra persona assicurandosi che se ne prenda cura e poi prosegue il suo cammino con la promessa di fare ritorno. In quella fase di prosecuzione del cammino c’è la sosta dalla fatica, la volontà di seguire i propri programmi, la necessità di una solitudine benefica. Perché prendersi cura degli altri è prendersi cura di se stessi, anche delle proprie fragilità.

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