“Distanziamento sociale” e senso di comunità
di Mons. Antonello Mura.
Tra le eredità del Covid-19 c’è un’espressione verbale difficile da sopportare: “distanziamento sociale”. Entrata in modo impalpabile nel gergo di questa stagione, appare inquietante per quello che fa pensare e terribile per le conseguenze che presuppone. Espressione che dimostra comunque la facilità con la quale accettiamo di utilizzare parole che sono evidentemente in contrasto con valori permanenti, a cui teniamo anche in questo tempo.
Molto meglio parlare di “distanziamento fisico”, dettato dalla necessità di evitare il contagio, ma che non esclude, né intende escludere altre scelte o atteggiamenti comunitari che non vanno annullati – quali la solidarietà e la fraternità – sempre indispensabili e più forti dello stesso contagio.
Se è infatti innegabile la consapevolezza che il nostro vivere quotidiano richieda, a causa del virus, comportamenti sanitari e sociali totalmente nuovi – oltre a un limitante mutamento di vita, di azione e di stile – è certo che questa stagione ci interpella su come non perdere atteggiamenti comunitari significativi, che chiamano in causa l’affettività, la carità e la solidarietà, senza dimenticare l’incontro quotidiano, la necessità di fare esperienza come popolo nell’incontro, nel dialogo e nella condivisione della vita, anche di quella ecclesiale.
Esaurito, speriamo definitivamente, il tempo del lockdown con il solo sacerdote protagonista della celebrazione della S. Messa, con il rischio di abituarci a celebrazioni senza popolo (tutto il contrario della liturgia, quindi) e con una presenza virtuale della comunità, è ora tempo – gradualmente ma progressivamente – di riprendere a valorizzare il sacerdozio battesimale, la sinodalità con tutte le caratteristiche che la manifestano e la centralità dell’evangelizzazione. Il ritorno, cioè, per noi credenti alla comunità ecclesiale.
Non dimentichiamo, pur nel rispetto delle prescrizioni sanitarie a tutela della nostra salute, che la nostra fede passa dal contatto. L’evento celebrativo per eccellenza prevede che si mangi e si beva il corpo del Signore dopo aver ascoltato la Parola, per diventare una cosa sola con lui e tra noi: il suo corpo (eucaristico) per diventare suo corpo (ecclesiale). Anche il rapporto con Dio quindi, prima di essere individuale, è comunitario.
In questo periodo ancora faticoso, per il rischio di un contagio sempre in agguato, non possiamo però solo aspettare tempi migliori, ma porre le condizioni per un riavvio che metta in moto la comunità, soprattutto quella parrocchiale. La lezione da imparare nuovamente è che non siamo individui, ciascuno nella sua bolla di immunità, ma persone in relazione, dove ciascuna non può ridursi ad atteggiamenti tendenti solo a frenare il contagio ma è chiamata ad attivare un altro con-tatto, fatto di sollecitudine per gli altri. Lasciarci toccare dal pensiero dell’altro significa, ancora una volta anche nelle nostre comunità, assumere la capacità di pensare in termini di “noi” anziché di “io”, con la consapevolezza cristiana, oltre che umana, che ogni dono e ogni gratuità che offriamo e riceviamo ci fanno prossimi nell’umanità e nella fede.
Al rischio di assumere il distanziamento come logica di vita, occorre contrapporre, con lucidità, una nuova cura comunitaria, fatta di attenzioni, di un prendersi a cuore il futuro – penso a coloro che formano i nostri bambini e ragazzi nelle nostre parrocchie – tutto grazie, ad esempio, a una catechesi rinnovata – rivolta anche agli adulti – ricca della forza del Risorto e fonte di vita in tutti i campi, in ogni condizione.
✠ Antonello Mura
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