Solidarietà virale
di Augusta Cabras.
La coesione di un popolo si vede nei momenti di maggiore difficoltà e in questo momento storico il nostro territorio ha dimostrato ancora una volta di essere abitato da persone generose, pronte a mettersi a servizio di chi ha più bisogno
È bastato il tempo di incassare il colpo sferrato dall’arrivo della pandemia, di riprendere la rotta dopo un momento di disorientamento e di forte incertezza e in quasi tutte le comunità della nostra diocesi si sono espresse, e ancora si esprimono, le migliori energie, travolte dal virus della solidarietà, messa in pratica con slancio e concretezza.
Da Triei a Villagrande, da Ilbono a Tortolì, passando per Baunei fino a Tertenia e Villaputzu. Si tratta di iniziative del singolo, ma più spesso promosse da gruppi spontanei, solo in alcuni casi sollecitati e coordinati dalle amministrazioni e dagli uffici comunali. Sono gruppi che si sono resi disponibili per svolgere azioni semplici ma straordinariamente utili in una situazione così complessa, come fare la spesa o acquistare i medicinali e consegnare tutto nel domicilio delle persone sole, esprimendo vicinanza e aiutando a tenere a bada la paura sentita in particolare dagli anziani e dai bambini. Proprio a questi ultimi ha pensato un cittadino di Triei che, in occasione della Pasqua, ha donato uova di cioccolato ai bambini del paese con il pensiero e l’obiettivo di rendere più dolce questo tempo amaro. E come sempre capita, le buone azioni ne generano altre e sempre più persone si sono unite per l’iniziativa, sposandone l’idea.
Ci sono poi i comitati che, nati per organizzare i festeggiamenti in onore di un Santo, in questo periodo hanno scelto di incontrarsi virtualmente, di fare una raccolta fondi e di donare quanto raccolto all’Ospedale di Lanusei per fronteggiare con maggiori mezzi e strumenti l’emergenza sanitaria.
Le associazioni di assistenza pubblica, che non si sono mai fermate, in molti casi hanno fatto da collettore tra privati, imprese e volontari, rispondendo via via alle esigenze specifiche nate nel mezzo della pandemia: essere presenti e vicini alle persone sole da sempre o perché costrette dalla quarantena e fornire al maggior numero di persone i dispositivi di protezione individuale, mascherine in particolare. E così, il passaparola, sempre virtuale e a distanza, contagia di energia e creatività. Gruppi di sarte professioniste o semplici appassionate di ago e filo danno inizio alla produzione artigianale rispondendo a una richiesta sempre maggiore. Non è mancato neppure chi, rimanendo nel più assoluto anonimato, ha fatto trovare scorte di viveri alle famiglie più bisognose del paese, chi nel ricordo di una parente defunta – in un momento in cui la vicinanza dei propri cari è negata – ha iniziato una raccolta fondi destinata al presidio medico di Lanusei, coinvolgendo un gran numero di persone o chi, emigrato ma con la Sardegna del cuore, ha fatto giungere nell’isola gratuitamente, i dispositivi di protezione individuali.
Sono tutti grandi e piccoli gesti che diventano segni di attenzione e di condivisione. Perché come ha detto Papa Francesco nella sera del 27 marzo, in una piazza San Pietro gremita di solitudine e speranza e il cui ricordo rimarrà indelebile nella nostra mente e nelle parole di chi scriverà la storia, «Siamo tutti nella stessa barca. […] Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. […] Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri ego sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli».
È il riconoscimento della nostra umanità pregna di fragilità che nel momento del dolore, della paura, quando tutto diventa precario, quando il rischio della morte si fa reale, scopre e riscopre la possibilità di gettare ponti, di tendere le mani e gli orecchi per ascoltare e accogliere il grido del bisognoso a cui non si può e non si deve rimanere indifferenti.
C’è da chiedersi se da questa esperienza impareremo qualcosa, se il dolore di prima o seconda mano, quello vissuto o solo intuito possa far rifiorire la nostra umanità. C’è da chiedersi se la spontaneità dei gesti di solidarietà germogliati in questo tempo potranno essere coltivati con la stessa passione nelle nostre comunità, quotidianamente, per rispondere alle richieste d’aiuto presenti anche in momenti in cui la pandemia sarà un brutto ricordo. Ma questo ora non è dato saperlo. Tutto dipenderà da ciascuno di noi, dipenderà da quanto siamo disposti a lasciarci coinvolgere dallo spirito di carità e da quanto sapremo farci testimoni del messaggio cristiano. Prima che una sfida comunitaria, questa è forse una sfida personale che inevitabilmente si rifletterà con luce luminosa o come ombra sugli altri e sulla storia.
Si dice da più parti che nulla sarà più come prima. Forse sarà realmente così. In ogni caso possiamo scegliere se mettere a frutto quello che abbiamo imparato sulla nostra e sull’altrui umanità oppure possiamo archiviare quello che abbiamo vissuto come un fatto storico e personale, al massimo da ricordare e raccontare ai posteri.
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