In breve:

#indueparole

Facebook

di Giacomo Serreli.
Giusto un anno fa la strage con 49 vittime in due moschee in Nuova Zelanda: filmata e trasmessa in diretta su Facebook dal suo autore. E lì quel filmato era rimasto per 17 minuti prima che venisse rimosso. Un tempo infinito per la velocità di condivisione nei social, al punto che in 24 ore quel filmato era stato caricato un milione e mezzo di volte.
È stato uno degli orribili apici di quella divulgazione di ideologie di odio e violenza che ormai ci circonda.
Parole come pietre, si dice, che viaggiano incontrollate specie su quei mezzi di comunicazione figli delle moderne tecnologie nell’era di Internet e della socialità virtuale. E quotidianamente attraverso i social sono soprattutto i giovani a esserne investiti.
L’ “hate speech”, il linguaggio dell’odio, è sempre più tra noi ma i ragazzi, i maggiori utenti dei social, quasi non lo avvertono come un problema, non percependo la differenza tra quel tipo di linguaggio e i discorsi basati sul rispetto. E il mondo della politica sembra adattarsi irresponsabilmente a quel linguaggio violento, che calpesta i più elementari principi del rispetto dell’altro. Anche il recente convegno promosso a Roma da Civiltà Cattolica e Articolo 21 è tornato su quest’uso pericolosamente improprio delle parole, in una fase in cui ci si avvia quasi a una normalizzazione dell’odio.
È il momento di arginare questo imbarbarimento che incide anche sul fare informazione.
Non vanno dimenticati allora i principi sanciti poco meno di un anno fa dalla Carta d’Assisi, rivolta non solo a giornalisti e operatori della comunicazione, ma a tutti i cittadini perché nello scrivere, nel commentare, nell’informare abbiano un approccio dettato dalla correttezza e dal rispetto.
Li faccio miei anch’io che pure non sto nei social, ignoro cosa sia ritagliarsi un profilo su Facebook o fissare ogni momento della quotidianità personale, anche la più banale, su Instagram. A molti apparirà una posizione anacronisticamente demonizzante perché mi priva anche di un utilizzo virtuoso che i social possono comunque offrire. Ma starne fuori mi sembra sia stato l’unico antidoto a linguaggi violenti e fakenews che da quelle parti paiono sempre più tollerate.

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