Sardegna, in magistratura tante donne
di Augusta Cabras.
Paola Murru, magistrato, è la prima donna Presidente del Tribunale di Lanusei, nominata dal Csm nel 2012
Ci racconta il percorso compiuto per arrivare a ricoprire questo ruolo così importante?
Ho fatto tutto il percorso di studi e sono diventata magistrato nel 1986. Sono stata a Lodi, a Milano, poi a Nuoro e Cagliari finché, per esigenze familiari, ho deciso di chiedere il trasferimento e poter lavorare a Lanusei. All’epoca i miei due figli erano molto piccoli e avevo necessità di avere vicino delle persone di famiglia che potessero aiutarmi perché conciliare la vita familiare con quella lavorativa non era facile. Il lavoro del magistrato è complesso, duro, senza orari. È vero che per noi non c’è l’obbligo di timbrare il cartellino, ma questo può rivelarsi un’arma a doppio taglio perché davvero abbiamo una mole di lavoro che richiede tanto impegno, cosa che, da fuori, spesso non è percepita. Qualche anno fa sono stati ridotti i giorni di ferie dei magistrati da 45 a 30, quasi fosse tale privilegio la causa dei ritardi della giustizia; ma non ricordo un solo anno della mia vita da magistrato in cui abbia usufruito pienamente di questo tempo, utilizzato invece in gran parte, e non solo da me, per studiare, motivare e depositare i provvedimenti incamerati prima delle ferie.
Come è stato lavorare in un settore storicamente più maschile?
Io non ho avuto mai problemi o difficoltà per il fatto di essere una donna e non ho mai subito nessuna discriminazione. Mi sono sempre trovata e mi trovo benissimo con i miei colleghi e con tutto il Foro di Lanusei. Tanto che quando non sarò più Presidente del Tribunale non andrò via, ma starò ancora in Ogliastra.
In Italia, com’è il mondo della magistratura per le donne?
Non dobbiamo dimenticare che le donne hanno avuto accesso alla magistratura solo nel 1963. La Legge 66 regolamentò l’ammissione delle donne a tutte le cariche e agli impieghi pubblici, compresa la magistratura. Le prime otto, entrarono nel personale di magistratura nel 1965 e rappresentavano poco più del 4%dei vincitori del concorso. A distanza di oltre quant’anni possiamo dire che tanta strada è stata fatta. Dal ‘96 le donne vincitrici del concorso in magistratura sono sempre più degli uomini e dal 2015 il numero complessivo supera quello degli uomini. Attualmente le donne sono il 53% dei magistrati italiani e hanno un’età media di 47 anni, gli uomini di 51. Sono però ancora poche quelle con funzioni direttive: solo il 27,42%; tre dirigenti su quattro, infatti, sono uomini. In Sardegna però si contano tante donne ai vertici. È donna la Presidente della Corte d’Appello di Cagliari, Gemma Cucca; la Procuratrice generale della Corte d’Appello di Cagliari, Francesca Nanni; la Procuratrice della Repubblica presso il Tribunale di Cagliari, Maria Alessandra Pelagatti; la Procuratrice della Repubblica presso il Tribunale di Nuoro, Patrizia Castaldini; la Procuratrice della Repubblica presso il Tribunale dei minori di Cagliari, Anna Cau.
A più riprese si paventa la possibilità che il Tribunale di Lanusei venga chiuso. È un rischio reale? E cosa succederebbe se realmente si verificasse questo?
Lo si sente ripetere da anni, ma io sono ottimista. Chiudere il Tribunale significherebbe togliere al territorio, già di per sé isolato, un presidio importantissimo che tiene vicino l’Istituzione ai cittadini. Il nostro è un Tribunale piccolo, ma questa dimensione permette una vicinanza maggiore alle persone e una migliore percezione delle criticità della zona. Sarebbe un depauperamento davvero non auspicabile lasciare in Sardegna solo i tre tribunali più grandi. Il nostro Tribunale d’altra parte potrebbe essere ben più efficiente se non subissimo cicliche e rilevanti carenze di organico che comportano inevitabili rallentamenti. In questo momento costituisce un problema per noianche l’estrema burocratizzazione del sistema; fornire continuamente dati, statistiche, documenti di programmazione toglie tempo ed energie all’attività giurisdizionale che anche il Presidente svolge; senza contare l’impegno ulteriore gravante sul Presidente e sul Procuratore della Repubblica in relazione alla materiale gestione del Palazzo di Giustizia.
Perché in Italia è difficile “riformare” la Giustizia?
Sicuramente uno dei problemi è la mancanza di risorse. Se confrontiamo i dati che riguardano l’Italia e altri Paesi europei ci si rende conto della situazione. In Italia ci sono 14,8 magistrati ogni 100mila abitanti, in Germania 30,7. Ai magistrati professionali (togati) si aggiungono in Italia 5magistrati non togati ogni 100mila abitanti, in Germania 120. Il numero di nuovi procedimenti che gravano ogni anno sul singolo magistrato è così molto più alto per i magistrati italiani rispetto a quelli tedeschi. I procedimenti civili pendenti, secondo i dati relativi al 2014, in Italia sono 2.758.001, in Germania 744.510. Questo per dire che, finché i numeri rimarranno questi, è difficile un’effettiva e importante riduzione dei tempi di definizione dei procedimenti.
Cosa pensa della riforma della prescrizione?
In merito alla prescrizione dobbiamo tenere in considerazione due cose importanti: la prima è che una persona non può stare sotto processo per un tempo irragionevole e non posso non concordare con quanti pongono l’attenzione su tale questione; la seconda è che tempi ridotti di prescrizione del reato rendono reale il rischio che le vittime non abbiano giustizia con la vanificazione, inoltre, di tutta la complessa attività, investigativa e dibattimentale, compiuta. La riforma attuale prevede la sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, così come già avviene in altri Paesi. E mi pare si tratti di un buon contemperamento fra le due esigenze che vengono in rilievo, rendendo tra l’altro inutili le impugnazioni defatigatorie. La durata dei processi dipende innanzitutto dalle risorse disponibili, come detto, oltre che dalla minore o maggiore complessità della singola causa. L’imposizione di tempi di durata dei processi che non potranno, oggettivamente, essere rispettati, non può essere la soluzione; mentre la corsa all’incremento comunque del numero di definizioni, porta con sé il rischio di decisioni non adeguatamente ponderate.
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