In breve:

Se alla deriva va il cuore

Migranti

di Tonino Loddo.
Suona lapidaria la professione di fede che Mosè nel libro del Deuteronomio consegna al popolo di Israele. Una fede che è innanzitutto memoria, che continuamente guarda a un passato lontano per ricordare un presente sempre attuale: «mio padre era un arameo errante», uno straniero quindi, e per di più uno straniero errante, in cerca di casa. «Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero [...]. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù» (Deut. 26,5-6). La Bibbia ci aiuta a vedere la profonda consapevolezza di Israele nell’essere un popolo di migranti, un’esperienza che lascia un segno vivo nella sua coscienza, diventando parte del suo patrimonio genetico-spirituale. Così, ogni volta che l’israelita dà inizio alla preghiera, onde evitare di montare troppo in superbia, principia sempre con il riconoscere umilmente la propria piccolezza.
Un racconto esemplare che non si esaurisce nella Bibbia e neppure nel popolo d’Israele. La storia degli Stati Uniti, ad esempio, è storia di migranti, che comincia nel 1620 quando i Pilgrim Fathers – in fuga dall’Inghilterra che li perseguitava per la loro fede religiosa – fondarono la Nuova Inghilterra. Metà di loro morì nel primo inverno; malgrado ciò, coloro che poterono sopravvivere l’anno successivo celebrarono il primo Thanksgiving della storia americana, la prima Giornata del Ringraziamento, a base di tacchino selvatico.
E neppure l’Europa si sottrae a questo fenomeno. «Ma che gente è la tua?», chiedono a Didone i troiani naufraghi dell’Eneide; «che barbaro costume ci impedisce di scendere a terra e di fermarci sulla spiaggia? Perché farci guerra? [...] Lasciaci trarre a riva la flotta sconquassata dai venti [...] per poi salpare lieti verso l’Italia e il Lazio». Eloquente la risposta della regina: «La dura necessità, i rischi che corre lo Stato [...], m’obbligano a usare tali cautele, difendendo ovunque i confini. [...] Ma vi aiuterò e vi lascerò partire sicuri» (En. I, 520-574). E fu perché Didone aprì il suo porto a quei profughi che nacque Roma e con Roma l’Europa, quella civile, fondata sull’accoglienza e non sul risentimento e la paura.
Tutte storie che abbiamo dimenticato, e dimenticando abbiamo lasciato andare il cuore alla deriva. Never forget your roots, recita una massima anglossassone; non tradire mai le tue origini, non dimenticare chi sei stato: la vita è un viaggio e se non vuoi perdere l’orientamento devi ricordare sempre da dove sei venuto.
Eppure viviamo in un Paese e in un’Europa che i naufraghi, i profughi, i richiedenti asilo non li vogliono nemmeno vedere, e se li vedono gli negano perfino il nome; e si sono dovuti mettere in 7 per spartirsi 47 migranti (uno ogni 15 milioni di europei!), e per consentire che una nave potesse infine prendere terra a Catania. E questo in nome di una fermezza in variante umanitaria, come ha spiegato (si fa per dire!) in Tv il presidente del Parlamento europeo. Eppure, «anche Gesù fu un profugo», come ha ricordato recentemente papa Francesco, l’unico ormai che riscatta la coscienza dell’Europa e degli Stati dall’abisso di spietatezza in cui sembrano precipitati.
Perché possiamo accettare tutto, ma la spietatezza no. Abbiamo il dovere di denunciare la spietatezza. Di combattere la spietatezza. Perché la spietatezza genera solo rovina.

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