Dio si rivela a Mosè
di Giovanni Deiana
Il modo con cui Dio si è manifestato nell’ Antico Testamento è un argomento che mi ha occupato per molti anni; il mio interesse risale agli anni ‘70 quando, sotto la guida del compianto prof. M. Dahood, iniziavo lo studio dei testi ugaritici; in questa città, Ugarit, il dio più importante si chiamava El ed era considerato, tra l’altro, il creatore del cielo e della terra. Subito pensai al Dio altissimo di Gen 14,19 di cui Melchisedek era il sacerdote. Uno studio più ampio della Genesi mi fece scoprire come il Dio venerato dai patriarchi non fosse Jahvè ma proprio il dio El. Naturalmente la ricerca richiese un esame accurato di molto materiale epigrafico che pubblicai in articoli per specialisti e di cui è superfluo riportare i titoli. Basti dire che alla fine, nel 1996, cercai di riassumere tutta la materia in una monografia divulgativa dal titolo Il Dio dell’Antico Testamento in S. Panimolle (ed.), Dio. Signore nella Bibbia, Dizionario di spiritualità biblico-patristica: i grandi temi della S. Scrittura per la “Lectio divina”, per l’editore Borla di Roma, alle pagine 18-121.
Decenni di lavoro all’Urbaniana
In sintesi, si può affermare che i patriarchi veneravano il Dio El e solo più tardi il popolo ebraico ricevette la rivelazione di Jahvè sul monte Sinai. Ma tutta l’esperienza religiosa precedente non fu mandata al macero, ma recuperata e può rappresentare un prezioso insegnamento per la Chiesa di tutti i tempi. Come è facile intuire, il mio lavoro era essenzialmente teorico e speculativo, destinato a restare confinato nell’ ambito degli studi per gli addetti ai lavori o, al massimo, per appassionati di argomenti biblici. Fu solo intorno agli anni ‘90 quando fui chiamato all’Università Urbaniana ad insegnare prima lingue bibliche e poi teologia biblica che quella ricerca risultò importante.
Prima di procedere è necessario spendere qualche parola sull’Urbaniana: si tratta di una università della Santa Sede, più precisamente di Propaganda Fide, che ha il compito di formare i futuri professori dei seminari sparsi in tutto il mondo, ma specialmente in Africa e Asia. Essa tuttavia fu istituita nel lontano 1627 da Urbano VIII con un compito ambizioso, quello di individuare nelle culture dei popoli i valori religiosi che possono essere recepiti e integrati nel cristianesimo.
La cultura classica e la salvezza
Non si trattava di una novità: Eusebio di Cesarea (265-337 d. C.) aveva scritto una monumentale opera in tre volumi (Praeparatio Evangelica) per dimostrare che molti elementi della cultura greca e latina avevano costituito una provvidenziale preparazione alla predicazione del Vangelo. Fu proprio a contatto con questi giovani che venni a conoscenza di un conflitto culturale vissuto in prima persona e in modo drammatico da questi ragazzi. In molte culture era di fondamentale importanza il culto degli antenati. Per noi sembra un problema di scarsa importanza, per loro, invece, costituiva un grosso ostacolo all’accettazione del cristianesimo. In breve, molti antenati di questi studenti erano vissuti e morti nel paganesimo. Questo poneva loro un grosso problema: potevano essi venerare i loro antenati e valorizzare il loro patrimonio spirituale? Altra questione connessa: poiché non avevano ricevuto il battesimo, erano in paradiso o all’inferno?
Una sintesi illuminante
Fu alla luce dei miei precedenti studi che trovai la soluzione: come la rivelazione di Dio a Mosè non aveva annullato le esperienze religiose dei patriarchi, così il cristianesimo poteva recuperare il patrimonio religioso delle generazioni passate; detto in altri termini, come il popolo ebraico aveva recuperato la spiritualità dei patriarchi incentrata sul culto del Dio El, così il cristianesimo poteva accettare nel proprio patrimonio i diversi elementi delle religioni pre-cristiane. Naturalmente questo lavoro, che in linguaggio specialistico viene chiamato inculturazione, non si può fare a tavolino, ma nei singoli paesi di missione dove la Chiesa locale, in primo luogo i vescovi, in stretta collaborazione con i teologi e gli esperti delle diverse materie, individuano i valori da conservare e quanto, invece, è incompatibile con il cristianesimo.
Vediamo i testi che rappresentano il fondamento biblico di quanto esposto fin qui.
Dio si rivela a Mosè
La cornice narrativa dentro cui si svolgono i fatti è nota. Mosè, che porta un nome tipicamente egiziano, è costretto a fuggire, forse a causa di intrighi politici scoppiati alla corte del faraone, e trova ospitalità nel territorio di Madian. È tra questa popolazione dedita alla pastorizia ai margini della penisola sinaitica, che Mosè, sotto la guida forse del suocero Jetro, matura la sua esperienza religiosa, la quale giunge all’apice nell’ apparizione sul monte Sinai, durante la quale Dio gli rivela il suo nome Jahvè. Riporto il testo biblico nelle sue parti più importanti: «”Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”… Mosè disse a Dio: “Ecco, io arrivo dagli Israeliti e dico loro: il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro?”. Dio disse a Mosè: “Io sono colui che colui che sono (ehjeh aer ehjeh!)! Questo è il mio nome per sempre”» (Es 3, 6-15).
La svolta
Il brano riportato è uno dei più importanti di tutta la Bibbia e segna una svolta nella religione del popolo ebraico. Mentre al tempo dei patriarchi Dio era chiamato El, come risulta chiaramente in Gen 28,19, qui appare a Mosè come Jahvè. e da quel momento Egli diventerà il Dio esclusivo del popolo ebraico. Ma questo non è avvenuto in modo traumatico ma in perfetta continuità: tutta la religiosità dei patriarchi è stata recuperata, come dimostra Es 6,2: «Dio parlò a Mosè e gli disse: “Io sono Jahvè ! Sono apparso ad Abramo, Isacco e Giacobbe come El Shaddaj, ma (con) il mio nome di Jahvè non mi sono manifestato a loro”».
Detto in termini più espliciti, nel culto di El, praticato dai patriarchi, era Jahvè, ancora sconosciuto ad essi, che agiva. Da questo si può arrivare ad un principio teologico fondamentale per il dialogo inter-religioso: le esperienze religiose possono assumere le denominazioni più disparate, ma, se sono autentiche, costituiscono una manifestazione dell’unico Dio, il quale può operare la salvezza anche nei contesti religiosi non formalmente ortodossi.
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