L’ora e il poi. Riflessioni sul tempo
di Tonino Loddo
Tra i tanti temi che la celebrazione dell’anno giubilare segnala alla nostra attenzione, la riflessione sul significato del tempo non è certamente ultimo. L’esperienza immediata, la ricerca sociologica, la riflessione filosofica sembrano concordi nel dirci che oggi viviamo un tempo spezzato, che appare sotto molti aspetti come un insieme di attimi isolati e a sé stanti, senza un prima e un dopo, senza un filo che scorra e dia unità. Un’esperienza che è conseguenza immediata del processo di globalizzazione che scaturisce dal rapido sviluppo tecnologico e, in particolare, dallo sviluppo della comunicazione, che ha reso ogni rapporto, anche con chi è lontano, così simultaneo da cancellare distanze e attese. Così, il tempo è percepito come i pezzi di un puzzle, non necessariamente coerenti tra loro, mentre il futuro è qualcosa che capita di per sé, senza che su di esso si possa incidere con la propria azione, e il passato è qualcosa che non ha più influenza sul presente. Da qui la spasmodica concentrazione sul presente, da vivere in tutta la sua intensità perché nulla sfugga, che nel suo essere privo di radici e di prospettiva resta, perciò, sempre un attimo. E la vita è diventata solo una grande fiera, una gara giornaliera nel consumare il proprio tempo, con la classica idea che ogni cosa lasciata, non sia altro che un’opportunità perduta per sempre.
Eppure, se vogliamo almeno provare a dare un senso alla nostra esistenza e a riannodare i fili perduti dei nostri attimi, dobbiamo interrogarci sul tempo e sul suo valore. Innanzitutto, riappropriandoci del nostro passato personale e collettivo, cosa ancora più necessaria oggi, in un tempo in cui – come diceva Gramsci – «la storia è fatta dai giornali» e si insegue l’ultima notizia che fa dimenticare la penultima, figurarsi quella di una settimana prima! E proprio con la dissoluzione della memoria inizia l’avventura dell’uomo-massa, facilmente manipolabile e preda dell’ultimo imbonitore che ripete le stesse cose che aveva detto il penultimo imbonitore, ma di cui ci siamo presto dimenticati! Dimenticando il passato, però, ci priviamo oltre che di identità anche di tutte quelle risorse di esperienza che ci potrebbero rendere più semplice il presente; cioè, paradossalmente, senza memoria il nostro presente si fa più fragile e, convinti di non perderne, finiamo per perdere proprio quel tempo che vorremmo preservare. È la memoria, infatti, a metterci a confronto con il senso stesso della nostra vita e ad aiutarci a reggere le complesse difficoltà dell’esistenza.
E poi ci è ancora necessario saper guardare oltre. Sono i progetti, le speranze, i sogni, i desideri a dare un senso al nostro presente e a riempirlo di stimoli e di interesse. Pensare al futuro e vivere nel futuro costituiscono una necessità della natura umana. E non solo nel senso di prepararci a future necessità (mi costruisco un bunker così se arriva una guerra atomica posso sopravvivere), ma nel senso più ampio e simbolizzante di avventurarci oltre il presente, di pensarci oltre la finitezza e il limite, edificatori di «un nuovo cielo e di una nuova terra». Perché una storia costruita da cercatori di infinito è una storia libera e magnifica. E se qualcuno ci dirà che afferriamo nuvole, che battiamo l’aria, che non siamo pratici; che non è così che funziona il mondo; che ciò che conta è la forma e l’immagine; che o ti pieghi o ti piegano …, consideriamolo come un complimento. Profondamente e convintamente impegnati nel presente ed insaziabilmente immersi nel suo stupore e nella pienezza delle sue meraviglie; ma anche consapevoli che il presente non esaurisce il nostro essere e perciò capaci di tirarcene fuori per meglio entrare in noi stessi, facendo spazio a quella realtà più profonda che rischia di essere poco guardata, presi dalle mille cose quotidiane. «Perché – come esclamava pieno di emozioni Agostino – ci hai fatti per Te, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in Te».
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