In breve:

106 anni ma… senza lo zero

Ciccita Manca

di Jessica Ferrai.
«Ho 106 anni, ma per ciò che mi sento toglierei quello zero al centro». Ci scherza sopra zia Ciccita con un’ironia che denota una serenità e una voglia di vivere di cui ringrazia continuamente Dio. «La mia vita è una di quelle normali per i tempi in cui sono cresciuta. I primi ricordi risalgono a mio padre che aveva insegnato a noi figli a fare il segno della croce appena alzati dal letto per poi lavarsi il viso e fare colazione, regole a lui insegnate dal canonico Stochino che al suo tempo professava nel nostro paese. Ho frequentato la scuola fino alla quarta elementare, promossa alla quinta, ma nel nostro paese non esisteva l’anno successivo, che si poteva effettuare solamente spostandosi a Lanusei, e purtroppo alla nostra famiglia questo non era possibile.
Dopo la scuola qualche volta si giocava con le vicine di casa, usando dei giochi come is pippias de thappuli, ossia le bambine di stoffa che usavamo come bambole e costruivamo noi stesse da dei resti di stoffa, o a càmpana, costituito da una sorta di tabella numerata disegnata sulla strada utilizzando dei pezzi di mattone o argilla raccolti in strada, al cui passatempo si univano spesso e volentieri anche gli adulti.
Finita la scuola andavo all’orto ad aiutare mio padre fino al rintocco della campana che segnalava l’ora della cena. Mio padre aveva una vigna di cui purtroppo riuscì a cogliere solo il primo frutto poiché morì poco dopo, nel 1929, ma quella stessa vigna non è mai stata abbandonata dalla nostra famiglia ed è rimasta attiva per i 60 anni successivi. Insieme alle coltivazioni avviate da mio padre, la vigna ci diede di che vivere anche durante le guerre, quando il cibo era razionato e non sempre ogni componente familiare riusciva a sfamarsi.
Durante le guerre era proibito accendere le luci per non essere facilmente individuati dagli aerei bombardieri nemici ma fu uno di questi conflitti a portarmi via un fratello di cui purtroppo ho quindi pochi ricordi. Mi viene in mente ora anche mia madre che, più o meno all’età di 11 anni, mi aveva insegnato a fare is pinnigheddas, ossia le pieghe della camicia: per i primi punti mi aiutava lei, poi, a poco a poco, ci ho preso la mano. La prima volta che ho provato a farlo, queste pieghe non finivano più e mia madre dovette disfare il lavoro per poi ricominciarlo daccapo. Dopo vari tentativi però riuscì a cavarmela da sola e da allora non ho mai smesso, poiché il lavoro della mia vita fu proprio quello di sarta. Negli anni ’30 arrivò per me anche l’amore, Beniamino, che sposai nell’aprile del 1936, fabbro di mestiere, e da cui ebbi 8 figli: Gina, Saverio, Assunta, Antonio, Angelo (morto nel 1983), Maria Clelia, Lisetta e Giuseppe, tutti scolarizzati, i più piccoli sono arrivati a terminare le scuole medie.
Dopo i primi lavori di sartoria a mano, divenne necessario l’uso del telaio, realizzato in legno da artigiani locali e regalatomi da un’anziana vicina di casa, che venne restaurato più volte da conoscenti di Gairo, insieme alla mobilia della mia futura casa. Lo utilizzai fino al 1985 e con questo creavo coperte, asciugamani, insomma tutto ciò che era possibile in base alle richieste. Il corrispettivo del mio lavoro qualche volta era in denaro, altre volte in parole non sempre di apprezzamento che spesso si accettavano, ma altre volte l’esigenza del rispetto aveva la meglio sulla pazienza.
Successivamente, il lavoro di sartoria si incentrò per lo più sulle esigenze di famiglia e come passatempo che tutt’oggi adoro e pratico. Il mio tempo infatti ormai è dedicato all’uncinetto e alla preghiera e non posso negare che oggi mi manca molto l’andare a Messa, ma le mie condizioni attuali non me lo consentono più anche se continuo quotidianamente a nutrire la mia anima con la fede cattolica, leggendo libri a riguardo e seguendo trasmissioni quotidiane in reti televisive come quella TV2000 e di Padre Pio TV. Dall’ alto della mia età posso comunque ritenermi felice per la vita trascorsa, e ringrazio Dio ogni giorno per la fortuna di essere ancora qui con l’affetto dei miei cari che riempie ogni mia giornata».

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